Pagina iniziale | Navigazione |
Google
Dante - Inferno

La Divina Commedia di Dante: Inferno

La Divina Commedia di Dante: Purgatorio

La Divina Commedia di Dante: Paradiso



LA DIVINA COMMEDIA

DI DANTE ALIGHIERI



CANTICA I: INFERNO



Incipit Comoedia Dantis Alagherii, Florentini natione, non moribus.


La Divina Commedia
di Dante Alighieri




INFERNO


Inferno: Canto I


Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura che' la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era e` cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!

Tant'e` amara che poco e` piu` morte;

ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, diro` de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

Io non so ben ridir com'i' v'intrai,

tant'era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.

Ma poi ch'i' fui al pie` d'un colle giunto,

la` dove terminava quella valle che m'avea di paura il cor compunto,

guardai in alto, e vidi le sue spalle

vestite gia` de' raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta

che nel lago del cor m'era durata la notte ch'i' passai con tanta pieta.

E
come quei che con lena affannata uscito fuor del pelago a la riva si volge a l'acqua perigliosa e guata,

cosi` l'animo mio, ch'ancor fuggiva,

si volse a retro a rimirar lo passo che non lascio` gia` mai persona viva.

Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso,

ripresi via per la piaggia diserta, si` che 'l pie` fermo sempre era 'l piu` basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,

una lonza leggera e presta molto, che di pel macolato era coverta;

e
non mi si partia dinanzi al volto, anzi 'mpediva tanto il mio cammino, ch'i' fui per ritornar piu` volte volto.

Temp'era dal principio del mattino,

e 'l sol montava 'n su` con quelle stelle ch'eran con lui quando l'amor divino

mosse di prima quelle cose belle;

si` ch'a bene sperar m'era cagione di quella fiera a la gaetta pelle

l'ora del tempo e la dolce stagione;

ma non si` che paura non mi desse la vista che m'apparve d'un leone.

Questi parea che contra me venisse

con la test'alta e con rabbiosa fame, si` che parea che l'aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame

sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fe' gia` viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza

con la paura ch'uscia di sua vista, ch'io perdei la speranza de l'altezza.

E
qual e` quei che volontieri acquista, e giugne 'l tempo che perder lo face, che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,

che, venendomi 'ncontro, a poco a poco mi ripigneva la` dove 'l sol tace.

Mentre ch'i' rovinava in basso loco,

dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,

<<Miserere di me>>, gridai a lui, <<qual che tu sii, od ombra od omo certo!>>.

Rispuosemi
<<Non omo, omo gia` fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patria ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,

e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto nel tempo de li dei falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto

figliuol d'Anchise che venne di Troia, poi che 'l superbo Ilion fu combusto.

Ma tu perche' ritorni a tanta noia?

perche' non sali il dilettoso monte ch'e` principio e cagion di tutta gioia?>>.

<<Or se' tu quel Virgilio e quella fonte

che spandi di parlar si` largo fiume?>>, rispuos'io lui con vergognosa fronte.

<<O de li altri poeti onore e lume

vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;

tu se' solo colui da cu' io tolsi lo bello stilo che m'ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu' io mi volsi:

aiutami da lei, famoso saggio, ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi>>.

<<A te convien tenere altro viaggio>>,

rispuose poi che lagrimar mi vide, <<se vuo' campar d'esto loco selvaggio:

che' questa bestia, per la qual tu gride,

non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

e
ha natura si` malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo 'l pasto ha piu` fame che pria.

Molti son li animali a cui s'ammoglia,

e piu` saranno ancora, infin che 'l veltro verra`, che la fara` morir con doglia.

Questi non cibera` terra ne' peltro,

ma sapienza, amore e virtute, e sua nazion sara` tra feltro e feltro.

Di quella umile Italia fia salute

per cui mori` la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Questi la caccera` per ogne villa,

fin che l'avra` rimessa ne lo 'nferno, la` onde 'nvidia prima dipartilla.

Ond'io per lo tuo me' penso e discerno

che tu mi segui, e io saro` tua guida, e trarrotti di qui per loco etterno,

ove udirai le disperate strida,

vedrai li antichi spiriti dolenti, ch'a la seconda morte ciascun grida;

e
vederai color che son contenti nel foco, perche' speran di venire quando che sia a le beate genti.
A
le quai poi se tu vorrai salire, anima fia a cio` piu` di me degna: con lei ti lascero` nel mio partire;

che' quello imperador che la` su` regna,

perch'i' fu' ribellante a la sua legge, non vuol che 'n sua citta` per me si vegna.

In tutte parti impera e quivi regge;

quivi e` la sua citta` e l'alto seggio: oh felice colui cu' ivi elegge!>>.

E
io a lui: <<Poeta, io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, accio` ch'io fugga questo male e peggio,

che tu mi meni la` dov'or dicesti,

si` ch'io veggia la porta di san Pietro e color cui tu fai cotanto mesti>>.

Allor si mosse, e io li tenni dietro.


Inferno: Canto II


Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno

toglieva li animai che sono in terra da le fatiche loro; e io sol uno

m'apparecchiava a sostener la guerra

si` del cammino e si` de la pietate, che ritrarra` la mente che non erra.

O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;

  • mente che scrivesti cio` ch'io vidi, qui si parra` la tua nobilitate.
Io cominciai
<<Poeta che mi guidi, guarda la mia virtu` s'ell'e` possente, prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.

Tu dici che di Silvio il parente,

corruttibile ancora, ad immortale secolo ando`, e fu sensibilmente.

Pero`, se l'avversario d'ogne male

cortese i fu, pensando l'alto effetto ch'uscir dovea di lui e 'l chi e 'l quale,

non pare indegno ad omo d'intelletto;

ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero ne l'empireo ciel per padre eletto:

la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,

fu stabilita per lo loco santo u' siede il successor del maggior Piero.

Per quest'andata onde li dai tu vanto,

intese cose che furon cagione di sua vittoria e del papale ammanto.

Andovvi poi lo Vas d'elezione,

per recarne conforto a quella fede ch'e` principio a la via di salvazione.

Ma io perche' venirvi? o chi 'l concede?

Io non Enea, io non Paulo sono: me degno a cio` ne' io ne' altri 'l crede.

Per che, se del venire io m'abbandono,

temo che la venuta non sia folle. Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono>>.

E
qual e` quei che disvuol cio` che volle e per novi pensier cangia proposta, si` che dal cominciar tutto si tolle,

tal mi fec'io 'n quella oscura costa,

perche', pensando, consumai la 'mpresa che fu nel cominciar cotanto tosta.

<<S'i' ho ben la parola tua intesa>>,

rispuose del magnanimo quell'ombra; <<l'anima tua e` da viltade offesa;

la qual molte fiate l'omo ingombra

si` che d'onrata impresa lo rivolve, come falso veder bestia quand'ombra.

Da questa tema accio` che tu ti solve,

dirotti perch'io venni e quel ch'io 'ntesi nel primo punto che di te mi dolve.

Io era tra color che son sospesi,

e donna mi chiamo` beata e bella, tal che di comandare io la richiesi.

Lucevan li occhi suoi piu` che la stella;

e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella:

"O anima cortese mantoana,

di cui la fama ancor nel mondo dura, e durera` quanto 'l mondo lontana,

l'amico mio, e non de la ventura,

ne la diserta piaggia e` impedito si` nel cammin, che volt'e` per paura;

e
temo che non sia gia` si` smarrito, ch'io mi sia tardi al soccorso levata, per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.

Or movi, e con la tua parola ornata

e con cio` c'ha mestieri al suo campare l'aiuta, si` ch'i' ne sia consolata.

I' son Beatrice che ti faccio andare;

vegno del loco ove tornar disio; amor mi mosse, che mi fa parlare.

Quando saro` dinanzi al segnor mio,

di te mi lodero` sovente a lui". Tacette allora, e poi comincia' io:

"O donna di virtu`, sola per cui

l'umana spezie eccede ogne contento di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,

tanto m'aggrada il tuo comandamento,

che l'ubidir, se gia` fosse, m'e` tardi; piu` non t'e` uo' ch'aprirmi il tuo talento.

Ma dimmi la cagion che non ti guardi

de lo scender qua giuso in questo centro de l'ampio loco ove tornar tu ardi".

"Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,

dirotti brievemente", mi rispuose, "perch'io non temo di venir qua entro.

Temer si dee di sole quelle cose

c'hanno potenza di fare altrui male; de l'altre no, che' non son paurose.

I' son fatta da Dio, sua merce', tale,

che la vostra miseria non mi tange, ne' fiamma d'esto incendio non m'assale.

Donna e` gentil nel ciel che si compiange

di questo 'mpedimento ov'io ti mando, si` che duro giudicio la` su` frange.

Questa chiese Lucia in suo dimando

e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele di te, e io a te lo raccomando -.

Lucia, nimica di ciascun crudele,

si mosse, e venne al loco dov'i' era, che mi sedea con l'antica Rachele.

Disse
- Beatrice, loda di Dio vera, che' non soccorri quei che t'amo` tanto, ch'usci` per te de la volgare schiera?

non odi tu la pieta del suo pianto?

non vedi tu la morte che 'l combatte su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? -.

Al mondo non fur mai persone ratte

a far lor pro o a fuggir lor danno, com'io, dopo cotai parole fatte,

venni qua giu` del mio beato scanno,

fidandomi del tuo parlare onesto, ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".

Poscia che m'ebbe ragionato questo,

li occhi lucenti lagrimando volse; per che mi fece del venir piu` presto;

e
venni a te cosi` com'ella volse; d'inanzi a quella fiera ti levai che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque
che e`? perche', perche' restai? perche' tanta vilta` nel core allette? perche' ardire e franchezza non hai,

poscia che tai tre donne benedette

curan di te ne la corte del cielo, e 'l mio parlar tanto ben ti promette?>>.

Quali fioretti dal notturno gelo

chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca si drizzan tutti aperti in loro stelo,

tal mi fec'io di mia virtude stanca,

e tanto buono ardire al cor mi corse, ch'i' cominciai come persona franca:

<<Oh pietosa colei che mi soccorse!

e te cortese ch'ubidisti tosto a le vere parole che ti porse!

Tu m'hai con disiderio il cor disposto

si` al venir con le parole tue, ch'i' son tornato nel primo proposto.

Or va, ch'un sol volere e` d'ambedue:

tu duca, tu segnore, e tu maestro>>. Cosi` li dissi; e poi che mosso fue,

intrai per lo cammino alto e silvestro.


Inferno: Canto III


Per me si va ne la citta` dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.


Giustizia mosse il mio alto fattore:

fecemi la divina podestate, la somma sapienza e 'l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate".

Queste parole di colore oscuro

vid'io scritte al sommo d'una porta; per ch'io: <<Maestro, il senso lor m'e` duro>>.

Ed elli a me, come persona accorta:

<<Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne vilta` convien che qui sia morta.

Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto

che tu vedrai le genti dolorose c'hanno perduto il ben de l'intelletto>>.

E
poi che la sua mano a la mia puose con lieto volto, ond'io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose.

Quivi sospiri, pianti e alti guai

risonavan per l'aere sanza stelle, per ch'io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,

parole di dolore, accenti d'ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s'aggira

sempre in quell'aura sanza tempo tinta, come la rena quando turbo spira.

E
io ch'avea d'error la testa cinta, dissi: <<Maestro, che e` quel ch'i' odo? e che gent'e` che par nel duol si` vinta?>>.
Ed elli a me
<<Questo misero modo tegnon l'anime triste di coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.

Mischiate sono a quel cattivo coro

de li angeli che non furon ribelli ne' fur fedeli a Dio, ma per se' fuoro.

Caccianli i ciel per non esser men belli,

ne' lo profondo inferno li riceve, ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli>>.

E
io: <<Maestro, che e` tanto greve a lor, che lamentar li fa si` forte?>>.

Rispuose: <<Dicerolti molto breve.

Questi non hanno speranza di morte

e la lor cieca vita e` tanto bassa, che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.

Fama di loro il mondo esser non lassa;

misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa>>.

E
io, che riguardai, vidi una 'nsegna che girando correva tanto ratta, che d'ogne posa mi parea indegna;
e
dietro le venia si` lunga tratta di gente, ch'i' non averei creduto che morte tanta n'avesse disfatta.

Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,

vidi e conobbi l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto.

Incontanente intesi e certo fui

che questa era la setta d'i cattivi, a Dio spiacenti e a' nemici sui.

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,

erano ignudi e stimolati molto da mosconi e da vespe ch'eran ivi.

Elle rigavan lor di sangue il volto,

che, mischiato di lagrime, a' lor piedi da fastidiosi vermi era ricolto.

E
poi ch'a riguardar oltre mi diedi, vidi genti a la riva d'un gran fiume;

per ch'io dissi: <<Maestro, or mi concedi

ch'i' sappia quali sono, e qual costume

le fa di trapassar parer si` pronte, com'io discerno per lo fioco lume>>.

Ed elli a me
<<Le cose ti fier conte quando noi fermerem li nostri passi su la trista riviera d'Acheronte>>.

Allor con li occhi vergognosi e bassi,

temendo no 'l mio dir li fosse grave, infino al fiume del parlar mi trassi.

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: <<Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo:

i' vegno per menarvi a l'altra riva ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.

E
tu che se' costi`, anima viva, partiti da cotesti che son morti>>. Ma poi che vide ch'io non mi partiva,
disse
<<Per altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare: piu` lieve legno convien che ti porti>>.
E
'l duca lui: <<Caron, non ti crucciare: vuolsi cosi` cola` dove si puote cio` che si vuole, e piu` non dimandare>>.

Quinci fuor quete le lanose gote

al nocchier de la livida palude, che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude,

cangiar colore e dibattero i denti, ratto che 'nteser le parole crude.

Bestemmiavano Dio e lor parenti,

l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme,

forte piangendo, a la riva malvagia ch'attende ciascun uom che Dio non teme.

Caron dimonio, con occhi di bragia,

loro accennando, tutte le raccoglie; batte col remo qualunque s'adagia.

Come d'autunno si levan le foglie

l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo vede a la terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d'Adamo

gittansi di quel lito ad una ad una, per cenni come augel per suo richiamo.

Cosi` sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di la` discese, anche di qua nuova schiera s'auna.

<<Figliuol mio>>, disse 'l maestro cortese,

<<quelli che muoion ne l'ira di Dio tutti convegnon qui d'ogne paese:

e
pronti sono a trapassar lo rio, che' la divina giustizia li sprona, si` che la tema si volve in disio.

Quinci non passa mai anima buona;

e pero`, se Caron di te si lagna, ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona>>.

Finito questo, la buia campagna

tremo` si` forte, che de lo spavento la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento,

che baleno` una luce vermiglia la qual mi vinse ciascun sentimento;

e caddi come l'uom cui sonno piglia.


Inferno: Canto IV


Ruppemi l'alto sonno ne la testa

un greve truono, si` ch'io mi riscossi come persona ch'e` per forza desta;

e
l'occhio riposato intorno mossi, dritto levato, e fiso riguardai per conoscer lo loco dov'io fossi.

Vero e` che 'n su la proda mi trovai

de la valle d'abisso dolorosa che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.

Oscura e profonda era e nebulosa

tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa.

<<Or discendiam qua giu` nel cieco mondo>>,

comincio` il poeta tutto smorto. <<Io saro` primo, e tu sarai secondo>>.

E
io, che del color mi fui accorto, dissi: <<Come verro`, se tu paventi che suoli al mio dubbiare esser conforto?>>.
Ed elli a me
<<L'angoscia de le genti che son qua giu`, nel viso mi dipigne quella pieta` che tu per tema senti.

Andiam, che' la via lunga ne sospigne>>.

Cosi` si mise e cosi` mi fe' intrare nel primo cerchio che l'abisso cigne.

Quivi, secondo che per ascoltare,

non avea pianto mai che di sospiri, che l'aura etterna facevan tremare;

cio` avvenia di duol sanza martiri

ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi, d'infanti e di femmine e di viri.

Lo buon maestro a me
<<Tu non dimandi che spiriti son questi che tu vedi? Or vo' che sappi, innanzi che piu` andi,

ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,

non basta, perche' non ebber battesmo, ch'e` porta de la fede che tu credi;

e
s'e' furon dinanzi al cristianesmo, non adorar debitamente a Dio: e di questi cotai son io medesmo.

Per tai difetti, non per altro rio,

semo perduti, e sol di tanto offesi, che sanza speme vivemo in disio>>.

Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,

pero` che gente di molto valore conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.

<<Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore>>,

comincia' io per voler esser certo di quella fede che vince ogne errore:

<<uscicci mai alcuno, o per suo merto

  • per altrui, che poi fosse beato?>>. E quei che 'ntese il mio parlar coverto,
rispuose
<<Io era nuovo in questo stato, quando ci vidi venire un possente, con segno di vittoria coronato.

Trasseci l'ombra del primo parente,

d'Abel suo figlio e quella di Noe`, di Moise` legista e ubidente;

Abraam patriarca e David re,

Israel con lo padre e co' suoi nati e con Rachele, per cui tanto fe';

e
altri molti, e feceli beati. E vo' che sappi che, dinanzi ad essi, spiriti umani non eran salvati>>.

Non lasciavam l'andar perch'ei dicessi,

ma passavam la selva tuttavia, la selva, dico, di spiriti spessi.

Non era lunga ancor la nostra via

di qua dal sonno, quand'io vidi un foco ch'emisperio di tenebre vincia.

Di lungi n'eravamo ancora un poco,

ma non si` ch'io non discernessi in parte ch'orrevol gente possedea quel loco.

<<O tu ch'onori scienzia e arte,

questi chi son c'hanno cotanta onranza, che dal modo de li altri li diparte?>>.

E
quelli a me: <<L'onrata nominanza che di lor suona su` ne la tua vita, grazia acquista in ciel che si` li avanza>>.

Intanto voce fu per me udita:

<<Onorate l'altissimo poeta: l'ombra sua torna, ch'era dipartita>>.

Poi che la voce fu restata e queta,

vidi quattro grand'ombre a noi venire: sembianz'avevan ne' trista ne' lieta.

Lo buon maestro comincio` a dire:

<<Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre si` come sire:

quelli e` Omero poeta sovrano;

l'altro e` Orazio satiro che vene; Ovidio e` 'l terzo, e l'ultimo Lucano.

Pero` che ciascun meco si convene

nel nome che sono` la voce sola, fannomi onore, e di cio` fanno bene>>.

Cosi` vid'i' adunar la bella scola

di quel segnor de l'altissimo canto che sovra li altri com'aquila vola.

Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,

volsersi a me con salutevol cenno, e 'l mio maestro sorrise di tanto;

e
piu` d'onore ancora assai mi fenno, ch'e' si` mi fecer de la loro schiera, si` ch'io fui sesto tra cotanto senno.

Cosi` andammo infino a la lumera,

parlando cose che 'l tacere e` bello, si` com'era 'l parlar cola` dov'era.

Venimmo al pie` d'un nobile castello,

sette volte cerchiato d'alte mura, difeso intorno d'un bel fiumicello.

Questo passammo come terra dura;

per sette porte intrai con questi savi: giugnemmo in prato di fresca verdura.

Genti v'eran con occhi tardi e gravi,

di grande autorita` ne' lor sembianti: parlavan rado, con voci soavi.

Traemmoci cosi` da l'un de' canti,

in loco aperto, luminoso e alto, si` che veder si potien tutti quanti.

Cola` diritto, sovra 'l verde smalto,

mi fuor mostrati li spiriti magni, che del vedere in me stesso m'essalto.

I' vidi Eletra con molti compagni,

tra ' quai conobbi Ettor ed Enea, Cesare armato con li occhi grifagni.

Vidi Cammilla e la Pantasilea;

da l'altra parte, vidi 'l re Latino che con Lavina sua figlia sedea.

Vidi quel Bruto che caccio` Tarquino,

Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia; e solo, in parte, vidi 'l Saladino.

Poi ch'innalzai un poco piu` le ciglia,

vidi 'l maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia.

Tutti lo miran, tutti onor li fanno:

quivi vid'io Socrate e Platone, che 'nnanzi a li altri piu` presso li stanno;

Democrito, che 'l mondo a caso pone,

Diogenes, Anassagora e Tale, Empedocles, Eraclito e Zenone;

e
vidi il buono accoglitor del quale, Diascoride dico; e vidi Orfeo, Tulio e Lino e Seneca morale;

Euclide geometra e Tolomeo,

Ipocrate, Avicenna e Galieno, Averois, che 'l gran comento feo.

Io non posso ritrar di tutti a pieno,

pero` che si` mi caccia il lungo tema, che molte volte al fatto il dir vien meno.

La sesta compagnia in due si scema:

per altra via mi mena il savio duca, fuor de la queta, ne l'aura che trema.

E vegno in parte ove non e` che luca.


Inferno: Canto V


Cosi` discesi del cerchio primaio

giu` nel secondo, che men loco cinghia, e tanto piu` dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minos orribilmente, e ringhia:

essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia.

Dico che quando l'anima mal nata

li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d'inferno e` da essa;

cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giu` sia messa.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;

vanno a vicenda ciascuna al giudizio; dicono e odono, e poi son giu` volte.

<<O tu che vieni al doloroso ospizio>>,

disse Minos a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio,

<<guarda com'entri e di cui tu ti fide;

non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!>>. E 'l duca mio a lui: <<Perche' pur gride?

Non impedir lo suo fatale andare:

vuolsi cosi` cola` dove si puote cio` che si vuole, e piu` non dimandare>>.

Or incomincian le dolenti note

a farmisi sentire; or son venuto la` dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d'ogne luce muto,

che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti e` combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,

mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,

quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtu` divina.

Intesi ch'a cosi` fatto tormento

enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento.

E
come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, cosi` quel fiato li spiriti mali

di qua, di la`, di giu`, di su` li mena;

nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena.

E
come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di se' lunga riga, cosi` vid'io venir, traendo guai,

ombre portate da la detta briga;

per ch'i' dissi: <<Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera si` gastiga?>>.

<<La prima di color di cui novelle

tu vuo' saper>>, mi disse quelli allotta, <<fu imperadrice di molte favelle.

A
vizio di lussuria fu si` rotta, che libito fe' licito in sua legge, per torre il biasmo in che era condotta.

Ell'e` Semiramis, di cui si legge

che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che 'l Soldan corregge.

L'altra e` colei che s'ancise amorosa,

e ruppe fede al cener di Sicheo; poi e` Cleopatras lussuriosa.

Elena vedi, per cui tanto reo

tempo si volse, e vedi 'l grande Achille, che con amore al fine combatteo.

Vedi Paris, Tristano>>; e piu` di mille

ombre mostrommi e nominommi a dito, ch'amor di nostra vita dipartille.

Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito

nomar le donne antiche e ' cavalieri, pieta` mi giunse, e fui quasi smarrito.

I' cominciai
<<Poeta, volontieri parlerei a quei due che 'nsieme vanno, e paion si` al vento esser leggeri>>.
Ed elli a me
<<Vedrai quando saranno piu` presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed ei verranno>>.

Si` tosto come il vento a noi li piega,

mossi la voce: <<O anime affannate, venite a noi parlar, s'altri nol niega!>>.

Quali colombe dal disio chiamate

con l'ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l'aere dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov'e` Dido,

a noi venendo per l'aere maligno, si` forte fu l'affettuoso grido.

<<O animal grazioso e benigno

che visitando vai per l'aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l'universo,

noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c'hai pieta` del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,

noi udiremo e parleremo a voi, mentre che 'l vento, come fa, ci tace.

Siede la terra dove nata fui

su la marina dove 'l Po discende per aver pace co' seguaci sui.

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende

prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer si` forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Amor condusse noi ad una morte:

Caina attende chi a vita ci spense>>. Queste parole da lor ci fuor porte.

Quand'io intesi quell'anime offense,

china' il viso e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: <<Che pense?>>.

Quando rispuosi, cominciai
<<Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio meno` costoro al doloroso passo!>>.

Poi mi rivolsi a loro e parla' io,

e cominciai: <<Francesca, i tuoi martiri a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi
al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette Amore che conosceste i dubbiosi disiri?>>.
E
quella a me: <<Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e cio` sa 'l tuo dottore.

Ma s'a conoscer la prima radice

del nostro amor tu hai cotanto affetto, diro` come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto

di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per piu` fiate li occhi ci sospinse

quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso

esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi bascio` tutto tremante.

Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno piu` non vi leggemmo avante>>.

Mentre che l'uno spirto questo disse,

l'altro piangea; si` che di pietade io venni men cosi` com'io morisse.

E caddi come corpo morto cade.


Inferno: Canto VI


Al tornar de la mente, che si chiuse

dinanzi a la pieta` d'i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse,

novi tormenti e novi tormentati

mi veggio intorno, come ch'io mi mova e ch'io mi volga, e come che io guati.

Io sono al terzo cerchio, de la piova

etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualita` mai non l'e` nova.

Grandine grossa, acqua tinta e neve

per l'aere tenebroso si riversa; pute la terra che questo riceve.

Cerbero, fiera crudele e diversa,

con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi e` sommersa.

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,

e 'l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.

Urlar li fa la pioggia come cani;

de l'un de' lati fanno a l'altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani.

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,

le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo.

E
'l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gitto` dentro a le bramose canne.

Qual e` quel cane ch'abbaiando agogna,

e si racqueta poi che 'l pasto morde, che' solo a divorarlo intende e pugna,

cotai si fecer quelle facce lorde

de lo demonio Cerbero, che 'ntrona l'anime si`, ch'esser vorrebber sorde.

Noi passavam su per l'ombre che adona

la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanita` che par persona.

Elle giacean per terra tutte quante,

fuor d'una ch'a seder si levo`, ratto ch'ella ci vide passarsi davante.

<<O tu che se' per questo 'nferno tratto>>,

mi disse, <<riconoscimi, se sai: tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto>>.

E
io a lui: <<L'angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente, si` che non par ch'i' ti vedessi mai.

Ma dimmi chi tu se' che 'n si` dolente

loco se' messo e hai si` fatta pena, che, s'altra e` maggio, nulla e` si` spiacente>>.

Ed elli a me
<<La tua citta`, ch'e` piena d'invidia si` che gia` trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena.

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:

per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

E
io anima trista non son sola, che' tutte queste a simil pena stanno per simil colpa>>. E piu` non fe' parola.
Io li rispuosi
<<Ciacco, il tuo affanno mi pesa si`, ch'a lagrimar mi 'nvita; ma dimmi, se tu sai, a che verranno

li cittadin de la citta` partita;

s'alcun v'e` giusto; e dimmi la cagione per che l'ha tanta discordia assalita>>.

E
quelli a me: <<Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccera` l'altra con molta offensione.

Poi appresso convien che questa caggia

infra tre soli, e che l'altra sormonti con la forza di tal che teste' piaggia.

Alte terra` lungo tempo le fronti,

tenendo l'altra sotto gravi pesi, come che di cio` pianga o che n'aonti.

Giusti son due, e non vi sono intesi;

superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c'hanno i cuori accesi>>.

Qui puose fine al lagrimabil suono.

E io a lui: <<Ancor vo' che mi 'nsegni, e che di piu` parlar mi facci dono.

Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor si` degni,

Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni,

dimmi ove sono e fa ch'io li conosca;

che' gran disio mi stringe di savere se 'l ciel li addolcia, o lo 'nferno li attosca>>.

E
quelli: <<Ei son tra l'anime piu` nere: diverse colpe giu` li grava al fondo: se tanto scendi, la` i potrai vedere.

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,

priegoti ch'a la mente altrui mi rechi: piu` non ti dico e piu` non ti rispondo>>.

Li diritti occhi torse allora in biechi;

guardommi un poco, e poi chino` la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi.

E
'l duca disse a me: <<Piu` non si desta di qua dal suon de l'angelica tromba, quando verra` la nimica podesta:

ciascun rivedera` la trista tomba,

ripigliera` sua carne e sua figura, udira` quel ch'in etterno rimbomba>>.

Si` trapassammo per sozza mistura

de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti, toccando un poco la vita futura;

per ch'io dissi
<<Maestro, esti tormenti crescerann'ei dopo la gran sentenza,
  • fier minori, o saran si` cocenti?>>.
Ed elli a me
<<Ritorna a tua scienza, che vuol, quanto la cosa e` piu` perfetta, piu` senta il bene, e cosi` la doglienza.

Tutto che questa gente maladetta

in vera perfezion gia` mai non vada, di la` piu` che di qua essere aspetta>>.

Noi aggirammo a tondo quella strada,

parlando piu` assai ch'i' non ridico; venimmo al punto dove si digrada:

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.


Inferno: Canto VII


<<Pape Satan, pape Satan aleppe!>>,

comincio` Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe,

disse per confortarmi
<<Non ti noccia la tua paura; che', poder ch'elli abbia, non ci torra` lo scender questa roccia>>.

Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,

e disse: <<Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia.

Non e` sanza cagion l'andare al cupo:

vuolsi ne l'alto, la` dove Michele fe' la vendetta del superbo strupo>>.

Quali dal vento le gonfiate vele

caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele.

Cosi` scendemmo ne la quarta lacca

pigliando piu` de la dolente ripa che 'l mal de l'universo tutto insacca.

Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa

nove travaglie e pene quant'io viddi? e perche' nostra colpa si` ne scipa?

Come fa l'onda la` sovra Cariddi,

che si frange con quella in cui s'intoppa, cosi` convien che qui la gente riddi.

Qui vid'i' gente piu` ch'altrove troppa,

e d'una parte e d'altra, con grand'urli, voltando pesi per forza di poppa.

Percoteansi 'ncontro; e poscia pur li`

si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: <<Perche' tieni?>> e <<Perche' burli?>>.

Cosi` tornavan per lo cerchio tetro

da ogne mano a l'opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro;

poi si volgea ciascun, quand'era giunto,

per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra. E io, ch'avea lo cor quasi compunto,

dissi
<<Maestro mio, or mi dimostra che gente e` questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra>>.
Ed elli a me
<<Tutti quanti fuor guerci si` de la mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci.

Assai la voce lor chiaro l'abbaia

quando vegnono a' due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia.

Questi fuor cherci, che non han coperchio

piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio>>.

E
io: <<Maestro, tra questi cotali dovre' io ben riconoscere alcuni che furo immondi di cotesti mali>>.
Ed elli a me
<<Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i fe' sozzi ad ogne conoscenza or li fa bruni.

In etterno verranno a li due cozzi:

questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro

ha tolto loro, e posti a questa zuffa: qual ella sia, parole non ci appulcro.

Or puoi, figliuol, veder la corta buffa

d'i ben che son commessi a la fortuna, per che l'umana gente si rabbuffa;

che' tutto l'oro ch'e` sotto la luna

e che gia` fu, di quest'anime stanche non poterebbe farne posare una>>.

<<Maestro mio>>, diss'io, <<or mi di` anche:

questa fortuna di che tu mi tocche, che e`, che i ben del mondo ha si` tra branche?>>.

E
quelli a me: <<Oh creature sciocche, quanta ignoranza e` quella che v'offende! Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.

Colui lo cui saver tutto trascende,

fece li cieli e die` lor chi conduce si` ch'ogne parte ad ogne parte splende,

distribuendo igualmente la luce.

Similemente a li splendor mondani ordino` general ministra e duce

che permutasse a tempo li ben vani

di gente in gente e d'uno in altro sangue, oltre la difension d'i senni umani;

per ch'una gente impera e l'altra langue,

seguendo lo giudicio di costei, che e` occulto come in erba l'angue.

Vostro saver non ha contasto a lei:

questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dei.

Le sue permutazion non hanno triegue;

necessita` la fa esser veloce; si` spesso vien chi vicenda consegue.

Quest'e` colei ch'e` tanto posta in croce

pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce;

ma ella s'e` beata e cio` non ode:

con l'altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode.

Or discendiamo omai a maggior pieta;

gia` ogne stella cade che saliva quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta>>.

Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva

sovr'una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva.

L'acqua era buia assai piu` che persa;

e noi, in compagnia de l'onde bige, intrammo giu` per una via diversa.

In la palude va c'ha nome Stige

questo tristo ruscel, quand'e` disceso al pie` de le maligne piagge grige.

E
io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso.

Queste si percotean non pur con mano,

ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co' denti a brano a brano.

Lo buon maestro disse
<<Figlio, or vedi l'anime di color cui vinse l'ira; e anche vo' che tu per certo credi

che sotto l'acqua e` gente che sospira,

e fanno pullular quest'acqua al summo, come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.

Fitti nel limo, dicon
"Tristi fummo ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, portando dentro accidioso fummo:

or ci attristiam ne la belletta negra".

Quest'inno si gorgoglian ne la strozza, che' dir nol posson con parola integra>>.

Cosi` girammo de la lorda pozza

grand'arco tra la ripa secca e 'l mezzo, con li occhi volti a chi del fango ingozza.

Venimmo al pie` d'una torre al da sezzo.


Inferno: Canto VIII


Io dico, seguitando, ch'assai prima

che noi fossimo al pie` de l'alta torre, li occhi nostri n'andar suso a la cima

per due fiammette che i vedemmo porre

e un'altra da lungi render cenno tanto ch'a pena il potea l'occhio torre.

E
io mi volsi al mar di tutto 'l senno; dissi: <<Questo che dice? e che risponde quell'altro foco? e chi son quei che 'l fenno?>>.
Ed elli a me
<<Su per le sucide onde gia` scorgere puoi quello che s'aspetta, se 'l fummo del pantan nol ti nasconde>>.

Corda non pinse mai da se' saetta

che si` corresse via per l'aere snella, com'io vidi una nave piccioletta

venir per l'acqua verso noi in quella,

sotto 'l governo d'un sol galeoto, che gridava: <<Or se' giunta, anima fella!>>.

<<Flegias, Flegias, tu gridi a voto>>,

disse lo mio segnore <<a questa volta: piu` non ci avrai che sol passando il loto>>.

Qual e` colui che grande inganno ascolta

che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegias ne l'ira accolta.

Lo duca mio discese ne la barca,

e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand'io fui dentro parve carca.

Tosto che 'l duca e io nel legno fui,

segando se ne va l'antica prora de l'acqua piu` che non suol con altrui.

Mentre noi corravam la morta gora,

dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: <<Chi se' tu che vieni anzi ora?>>.

E
io a lui: <<S'i' vegno, non rimango; ma tu chi se', che si` se' fatto brutto?>>.

Rispuose: <<Vedi che son un che piango>>.

E
io a lui: <<Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto>>.

Allor distese al legno ambo le mani;

per che 'l maestro accorto lo sospinse, dicendo: <<Via costa` con li altri cani!>>.

Lo collo poi con le braccia mi cinse;

basciommi 'l volto, e disse: <<Alma sdegnosa, benedetta colei che 'n te s'incinse!

Quei fu al mondo persona orgogliosa;

bonta` non e` che sua memoria fregi: cosi` s'e` l'ombra sua qui furiosa.

Quanti si tegnon or la` su` gran regi

che qui staranno come porci in brago, di se' lasciando orribili dispregi!>>.

E
io: <<Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago>>.
Ed elli a me
<<Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal disio convien che tu goda>>.

Dopo cio` poco vid'io quello strazio

far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

Tutti gridavano
<<A Filippo Argenti!>>; e 'l fiorentino spirito bizzarro in se' medesmo si volvea co' denti.

Quivi il lasciammo, che piu` non ne narro;

ma ne l'orecchie mi percosse un duolo, per ch'io avante l'occhio intento sbarro.

Lo buon maestro disse
<<Omai, figliuolo, s'appressa la citta` c'ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo>>.
E
io: <<Maestro, gia` le sue meschite la` entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite

fossero>>. Ed ei mi disse: <<Il foco etterno

ch'entro l'affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno>>.

Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse

che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse.

Non sanza prima far grande aggirata,

venimmo in parte dove il nocchier forte <<Usciteci>>, grido`: <<qui e` l'intrata>>.

Io vidi piu` di mille in su le porte

da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: <<Chi e` costui che sanza morte

va per lo regno de la morta gente?>>.

E 'l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente.

Allor chiusero un poco il gran disdegno,

e disser: <<Vien tu solo, e quei sen vada, che si` ardito intro` per questo regno.

Sol si ritorni per la folle strada:

pruovi, se sa; che' tu qui rimarrai che li ha' iscorta si` buia contrada>>.

Pensa, lettor, se io mi sconfortai

nel suon de le parole maladette, che' non credetti ritornarci mai.

<<O caro duca mio, che piu` di sette

volte m'hai sicurta` renduta e tratto d'alto periglio che 'ncontra mi stette,

non mi lasciar>>, diss'io, <<cosi` disfatto;

e se 'l passar piu` oltre ci e` negato, ritroviam l'orme nostre insieme ratto>>.

E
quel segnor che li` m'avea menato, mi disse: <<Non temer; che' 'l nostro passo

non ci puo` torre alcun: da tal n'e` dato.

Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso

conforta e ciba di speranza buona, ch'i' non ti lascero` nel mondo basso>>.

Cosi` sen va, e quivi m'abbandona

lo dolce padre, e io rimagno in forse, che si` e no nel capo mi tenciona.

Udir non potti quello ch'a lor porse;

ma ei non stette la` con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse.

Chiuser le porte que' nostri avversari

nel petto al mio segnor, che fuor rimase, e rivolsesi a me con passi rari.

Li occhi a la terra e le ciglia avea rase

d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri: <<Chi m'ha negate le dolenti case!>>.

E
a me disse: <<Tu, perch'io m'adiri, non sbigottir, ch'io vincero` la prova, qual ch'a la difension dentro s'aggiri.

Questa lor tracotanza non e` nova;

che' gia` l'usaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova.

Sovr'essa vedestu` la scritta morta:

e gia` di qua da lei discende l'erta, passando per li cerchi sanza scorta,

tal che per lui ne fia la terra aperta>>.


Inferno: Canto IX


Quel color che vilta` di fuor mi pinse

veggendo il duca mio tornare in volta, piu` tosto dentro il suo novo ristrinse.

Attento si fermo` com'uom ch'ascolta;

che' l'occhio nol potea menare a lunga per l'aere nero e per la nebbia folta.

<<Pur a noi converra` vincer la punga>>,

comincio` el, <<se non... Tal ne s'offerse. Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!>>.

I' vidi ben si` com'ei ricoperse

lo cominciar con l'altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse;

ma nondimen paura il suo dir dienne,

perch'io traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne.

<<In questo fondo de la trista conca

discende mai alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca?>>.

Questa question fec'io; e quei <<Di rado

incontra>>, mi rispuose, <<che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado.

Ver e` ch'altra fiata qua giu` fui,

congiurato da quella Eriton cruda che richiamava l'ombre a' corpi sui.

Di poco era di me la carne nuda,

ch'ella mi fece intrar dentr'a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

Quell'e` 'l piu` basso loco e 'l piu` oscuro,

e 'l piu` lontan dal ciel che tutto gira: ben so 'l cammin; pero` ti fa sicuro.

Questa palude che 'l gran puzzo spira

cigne dintorno la citta` dolente, u' non potemo intrare omai sanz'ira>>.

E
altro disse, ma non l'ho a mente; pero` che l'occhio m'avea tutto tratto ver' l'alta torre a la cima rovente,

dove in un punto furon dritte ratto

tre furie infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto,

e
con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte.
E
quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l'etterno pianto, <<Guarda>>, mi disse, <<le feroci Erine.

Quest'e` Megera dal sinistro canto;

quella che piange dal destro e` Aletto; Tesifon e` nel mezzo>>; e tacque a tanto.

Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;

battiensi a palme, e gridavan si` alto, ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.

<<Vegna Medusa: si` 'l farem di smalto>>,

dicevan tutte riguardando in giuso; <<mal non vengiammo in Teseo l'assalto>>.

<<Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso;

che' se 'l Gorgon si mostra e tu 'l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso>>.

Cosi` disse 'l maestro; ed elli stessi

mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi.

O
voi ch'avete li 'ntelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde sotto 'l velame de li versi strani.
E
gia` venia su per le torbide onde un fracasso d'un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde,

non altrimenti fatto che d'un vento

impetuoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz'alcun rattento

li rami schianta, abbatte e porta fori;

dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori.

Gli occhi mi sciolse e disse: <<Or drizza il nerbo

del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo e` piu` acerbo>>.

Come le rane innanzi a la nimica

biscia per l'acqua si dileguan tutte, fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,

vid'io piu` di mille anime distrutte

fuggir cosi` dinanzi ad un ch'al passo passava Stige con le piante asciutte.

Dal volto rimovea quell'aere grasso,

menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell'angoscia parea lasso.

Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo,

e volsimi al maestro; e quei fe' segno ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!

Venne a la porta, e con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.

<<O cacciati del ciel, gente dispetta>>,

comincio` elli in su l'orribil soglia, <<ond'esta oltracotanza in voi s'alletta?

Perche' recalcitrate a quella voglia

a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che piu` volte v'ha cresciuta doglia?

Che giova ne le fata dar di cozzo?

Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo>>.

Poi si rivolse per la strada lorda,

e non fe' motto a noi, ma fe' sembiante d'omo cui altra cura stringa e morda

che quella di colui che li e` davante;

e noi movemmo i piedi inver' la terra, sicuri appresso le parole sante.

Dentro li 'ntrammo sanz'alcuna guerra;

e io, ch'avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra,

com'io fui dentro, l'occhio intorno invio;

e veggio ad ogne man grande campagna piena di duolo e di tormento rio.

Si` come ad Arli, ove Rodano stagna,

si` com'a Pola, presso del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna,

fanno i sepulcri tutt'il loco varo,

cosi` facevan quivi d'ogne parte, salvo che 'l modo v'era piu` amaro;

che' tra gli avelli fiamme erano sparte,

per le quali eran si` del tutto accesi, che ferro piu` non chiede verun'arte.

Tutti li lor coperchi eran sospesi,

e fuor n'uscivan si` duri lamenti, che ben parean di miseri e d'offesi.

E
io: <<Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell'arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?>>.
Ed elli a me
<<Qui son li eresiarche con lor seguaci, d'ogne setta, e molto piu` che non credi son le tombe carche.

Simile qui con simile e` sepolto,

e i monimenti son piu` e men caldi>>. E poi ch'a la man destra si fu volto,

passammo tra i martiri e li alti spaldi.


Inferno: Canto X


Ora sen va per un secreto calle,

tra 'l muro de la terra e li martiri, lo mio maestro, e io dopo le spalle.

<<O virtu` somma, che per li empi giri

mi volvi>>, cominciai, <<com'a te piace, parlami, e sodisfammi a' miei disiri.

La gente che per li sepolcri giace

potrebbesi veder? gia` son levati tutt'i coperchi, e nessun guardia face>>.

E
quelli a me: <<Tutti saran serrati quando di Iosafat qui torneranno coi corpi che la` su` hanno lasciati.

Suo cimitero da questa parte hanno

con Epicuro tutti suoi seguaci, che l'anima col corpo morta fanno.

Pero` a la dimanda che mi faci

quinc'entro satisfatto sara` tosto, e al disio ancor che tu mi taci>>.

E
io: <<Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m'hai non pur mo a cio` disposto>>.

<<O Tosco che per la citta` del foco

vivo ten vai cosi` parlando onesto, piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto

di quella nobil patria natio a la qual forse fui troppo molesto>>.

Subitamente questo suono uscio

d'una de l'arche; pero` m'accostai, temendo, un poco piu` al duca mio.

Ed el mi disse
<<Volgiti! Che fai? Vedi la` Farinata che s'e` dritto: da la cintola in su` tutto 'l vedrai>>.

Io avea gia` il mio viso nel suo fitto;

ed el s'ergea col petto e con la fronte com'avesse l'inferno a gran dispitto.

E
l'animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui,

dicendo: <<Le parole tue sien conte>>.

Com'io al pie` de la sua tomba fui,

guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimando`: <<Chi fuor li maggior tui?>>.

Io ch'era d'ubidir disideroso,

non gliel celai, ma tutto gliel'apersi; ond'ei levo` le ciglia un poco in suso;

poi disse
<<Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, si` che per due fiate li dispersi>>.

<<S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte>>,

rispuos'io lui, <<l'una e l'altra fiata; ma i vostri non appreser ben quell'arte>>.

Allor surse a la vista scoperchiata

un'ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s'era in ginocchie levata.

Dintorno mi guardo`, come talento

avesse di veder s'altri era meco; e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse
<<Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno, mio figlio ov'e`? e perche' non e` teco?>>.
E
io a lui: <<Da me stesso non vegno: colui ch'attende la`, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno>>.

Le sue parole e 'l modo de la pena

m'avean di costui gia` letto il nome; pero` fu la risposta cosi` piena.

Di subito drizzato grido`
<<Come? dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?>>.

Quando s'accorse d'alcuna dimora

ch'io facea dinanzi a la risposta, supin ricadde e piu` non parve fora.

Ma quell'altro magnanimo, a cui posta

restato m'era, non muto` aspetto, ne' mosse collo, ne' piego` sua costa:

e
se' continuando al primo detto, <<S'elli han quell'arte>>, disse, <<male appresa, cio` mi tormenta piu` che questo letto.

Ma non cinquanta volte fia raccesa

la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell'arte pesa.

E
se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perche' quel popolo e` si` empio incontr'a' miei in ciascuna sua legge?>>.
Ond'io a lui
<<Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio>>.

Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,

<<A cio` non fu' io sol>>, disse, <<ne' certo sanza cagion con li altri sarei mosso.

Ma fu' io solo, la` dove sofferto

fu per ciascun di torre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto>>.

<<Deh, se riposi mai vostra semenza>>,

prega' io lui, <<solvetemi quel nodo che qui ha 'nviluppata mia sentenza.

El par che voi veggiate, se ben odo,

dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo>>.

<<Noi veggiam, come quei c'ha mala luce,

le cose>>, disse, <<che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce.

Quando s'appressano o son, tutto e` vano

nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano.

Pero` comprender puoi che tutta morta

fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta>>.

Allor, come di mia colpa compunto,

dissi: <<Or direte dunque a quel caduto che 'l suo nato e` co'vivi ancor congiunto;

e
s'i' fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che 'l fei perche' pensava gia` ne l'error che m'avete soluto>>.
E
gia` 'l maestro mio mi richiamava; per ch'i' pregai lo spirto piu` avaccio che mi dicesse chi con lu' istava.
Dissemi
<<Qui con piu` di mille giaccio: qua dentro e` 'l secondo Federico, e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio>>.

Indi s'ascose; e io inver' l'antico

poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico.

Elli si mosse; e poi, cosi` andando,

mi disse: <<Perche' se' tu si` smarrito?>>. E io li sodisfeci al suo dimando.

<<La mente tua conservi quel ch'udito

hai contra te>>, mi comando` quel saggio. <<E ora attendi qui>>, e drizzo` 'l dito:

<<quando sarai dinanzi al dolce raggio

di quella il cui bell'occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il viaggio>>.

Appresso mosse a man sinistra il piede:

lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo per un sentier ch'a una valle fiede,

che 'nfin la` su` facea spiacer suo lezzo.


Inferno: Canto XI


In su l'estremita` d'un'alta ripa

che facevan gran pietre rotte in cerchio venimmo sopra piu` crudele stipa;

e
quivi, per l'orribile soperchio del puzzo che 'l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio

d'un grand'avello, ov'io vidi una scritta

che dicea: "Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta".

<<Lo nostro scender conviene esser tardo,

si` che s'ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo>>.

Cosi` 'l maestro; e io <<Alcun compenso>>,

dissi lui, <<trova che 'l tempo non passi perduto>>. Ed elli: <<Vedi ch'a cio` penso>>.

<<Figliuol mio, dentro da cotesti sassi>>,

comincio` poi a dir, <<son tre cerchietti di grado in grado, come que' che lassi.

Tutti son pien di spirti maladetti;

ma perche' poi ti basti pur la vista, intendi come e perche' son costretti.

D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,

ingiuria e` 'l fine, ed ogne fin cotale

  • con forza o con frode altrui contrista.

Ma perche' frode e` de l'uom proprio male,

piu` spiace a Dio; e pero` stan di sotto li frodolenti, e piu` dolor li assale.

Di violenti il primo cerchio e` tutto;

ma perche' si fa forza a tre persone, in tre gironi e` distinto e costrutto.

A
Dio, a se', al prossimo si pone far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione.

Morte per forza e ferute dogliose

nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose;

onde omicide e ciascun che mal fiere,

guastatori e predon, tutti tormenta lo giron primo per diverse schiere.

Puote omo avere in se' man violenta

e ne' suoi beni; e pero` nel secondo giron convien che sanza pro si penta

qualunque priva se' del vostro mondo,

biscazza e fonde la sua facultade, e piange la` dov'esser de' giocondo.

Puossi far forza nella deitade,

col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade;

e
pero` lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella.

La frode, ond'ogne coscienza e` morsa,

puo` l'omo usare in colui che 'n lui fida e in quel che fidanza non imborsa.

Questo modo di retro par ch'incida

pur lo vinco d'amor che fa natura; onde nel cerchio secondo s'annida

ipocresia, lusinghe e chi affattura,

falsita`, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura.

Per l'altro modo quell'amor s'oblia

che fa natura, e quel ch'e` poi aggiunto, di che la fede spezial si cria;

onde nel cerchio minore, ov'e` 'l punto

de l'universo in su che Dite siede, qualunque trade in etterno e` consunto>>.

E
io: <<Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue questo baratro e 'l popol ch'e' possiede.
Ma dimmi
quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s'incontran con si` aspre lingue,

perche' non dentro da la citta` roggia

sono ei puniti, se Dio li ha in ira? e se non li ha, perche' sono a tal foggia?>>.

Ed elli a me <<Perche' tanto delira>>,

disse <<lo 'ngegno tuo da quel che sole?

  • ver la mente dove altrove mira?

Non ti rimembra di quelle parole

con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che 'l ciel non vole,

incontenenza, malizia e la matta

bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta?

Se tu riguardi ben questa sentenza,

e rechiti a la mente chi son quelli che su` di fuor sostegnon penitenza,

tu vedrai ben perche' da questi felli

sien dipartiti, e perche' men crucciata la divina vendetta li martelli>>.

<<O sol che sani ogni vista turbata,

tu mi contenti si` quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar m'aggrata.

Ancora in dietro un poco ti rivolvi>>,

diss'io, <<la` dove di' ch'usura offende la divina bontade, e 'l groppo solvi>>.

<<Filosofia>>, mi disse, <<a chi la 'ntende,

nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende

dal divino 'ntelletto e da sua arte;

e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte,

che l'arte vostra quella, quanto pote,

segue, come 'l maestro fa 'l discente; si` che vostr'arte a Dio quasi e` nepote.

Da queste due, se tu ti rechi a mente

lo Genesi` dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente;

e
perche' l'usuriere altra via tene, per se' natura e per la sua seguace dispregia, poi ch'in altro pon la spene.

Ma seguimi oramai, che 'l gir mi piace;

che' i Pesci guizzan su per l'orizzonta, e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,

e 'l balzo via la` oltra si dismonta>>.


Inferno: Canto XII


Era lo loco ov'a scender la riva

venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco, tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.

Qual e` quella ruina che nel fianco

di qua da Trento l'Adice percosse,

  • per tremoto o per sostegno manco,

che da cima del monte, onde si mosse,

al piano e` si` la roccia discoscesa, ch'alcuna via darebbe a chi su` fosse:

cotal di quel burrato era la scesa;

e 'n su la punta de la rotta lacca l'infamia di Creti era distesa

che fu concetta ne la falsa vacca;

e quando vide noi, se' stesso morse, si` come quei cui l'ira dentro fiacca.

Lo savio mio inver' lui grido`: <<Forse

tu credi che qui sia 'l duca d'Atene, che su` nel mondo la morte ti porse?

Partiti, bestia
che' questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene>>.

Qual e` quel toro che si slaccia in quella

c'ha ricevuto gia` 'l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e la` saltella,

vid'io lo Minotauro far cotale;

e quello accorto grido`: <<Corri al varco: mentre ch'e' 'nfuria, e` buon che tu ti cale>>.

Cosi` prendemmo via giu` per lo scarco

di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco.

Io gia pensando; e quei disse: <<Tu pensi

forse a questa ruina ch'e` guardata da quell'ira bestial ch'i' ora spensi.

Or vo' che sappi che l'altra fiata

ch'i' discesi qua giu` nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata.

Ma certo poco pria, se ben discerno,

che venisse colui che la gran preda levo` a Dite del cerchio superno,

da tutte parti l'alta valle feda

tremo` si`, ch'i' pensai che l'universo sentisse amor, per lo qual e` chi creda

piu` volte il mondo in caosso converso;

e in quel punto questa vecchia roccia qui e altrove, tal fece riverso.

Ma ficca li occhi a valle, che' s'approccia

la riviera del sangue in la qual bolle qual che per violenza in altrui noccia>>.

Oh cieca cupidigia e ira folle,

che si` ci sproni ne la vita corta, e ne l'etterna poi si` mal c'immolle!

Io vidi un'ampia fossa in arco torta,

come quella che tutto 'l piano abbraccia, secondo ch'avea detto la mia scorta;

e
tra 'l pie` de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia.

Veggendoci calar, ciascun ristette,

e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette;

e
l'un grido` da lungi: <<A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l'arco tiro>>.
Lo mio maestro disse
<<La risposta farem noi a Chiron costa` di presso: mal fu la voglia tua sempre si` tosta>>.
Poi mi tento`, e disse
<<Quelli e` Nesso, che mori` per la bella Deianira e fe' di se' la vendetta elli stesso.
E
quel di mezzo, ch'al petto si mira, e` il gran Chiron, il qual nodri` Achille; quell'altro e` Folo, che fu si` pien d'ira.

Dintorno al fosso vanno a mille a mille,

saettando qual anima si svelle del sangue piu` che sua colpa sortille>>.

Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:

Chiron prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle.

Quando s'ebbe scoperta la gran bocca,

disse a' compagni: <<Siete voi accorti che quel di retro move cio` ch'el tocca?

Cosi` non soglion far li pie` d'i morti>>.

E 'l mio buon duca, che gia` li er'al petto, dove le due nature son consorti,

rispuose
<<Ben e` vivo, e si` soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessita` 'l ci 'nduce, e non diletto.

Tal si parti` da cantare alleluia

che mi commise quest'officio novo: non e` ladron, ne' io anima fuia.

Ma per quella virtu` per cu' io movo

li passi miei per si` selvaggia strada, danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo,

e
che ne mostri la` dove si guada e che porti costui in su la groppa, che' non e` spirto che per l'aere vada>>.

Chiron si volse in su la destra poppa,

e disse a Nesso: <<Torna, e si` li guida, e fa cansar s'altra schiera v'intoppa>>.

Or ci movemmo con la scorta fida

lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida.

Io vidi gente sotto infino al ciglio;

e 'l gran centauro disse: <<E' son tiranni che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.

Quivi si piangon li spietati danni;

quivi e` Alessandro, e Dionisio fero, che fe' Cicilia aver dolorosi anni.

E
quella fronte c'ha 'l pel cosi` nero, e` Azzolino; e quell'altro ch'e` biondo, e` Opizzo da Esti, il qual per vero

fu spento dal figliastro su` nel mondo>>.

Allor mi volsi al poeta, e quei disse: <<Questi ti sia or primo, e io secondo>>.

Poco piu` oltre il centauro s'affisse

sovr'una gente che 'nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse.

Mostrocci un'ombra da l'un canto sola,

dicendo: <<Colui fesse in grembo a Dio lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola>>.

Poi vidi gente che di fuor del rio

tenean la testa e ancor tutto 'l casso; e di costoro assai riconobb'io.

Cosi` a piu` a piu` si facea basso

quel sangue, si` che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo.

<<Si` come tu da questa parte vedi

lo bulicame che sempre si scema>>, disse 'l centauro, <<voglio che tu credi

che da quest'altra a piu` a piu` giu` prema

lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge ove la tirannia convien che gema.

La divina giustizia di qua punge

quell'Attila che fu flagello in terra e Pirro e Sesto; e in etterno munge

le lagrime, che col bollor diserra,

a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra>>.

Poi si rivolse, e ripassossi 'l guazzo.


Inferno: Canto XIII


Non era ancor di la` Nesso arrivato,

quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;

non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tosco:

non han si` aspri sterpi ne' si` folti

quelle fiere selvagge che 'n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi colti.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,

che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno.

Ali hanno late, e colli e visi umani,

pie` con artigli, e pennuto 'l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani.

E
'l buon maestro <<Prima che piu` entre, sappi che se' nel secondo girone>>, mi comincio` a dire, <<e sarai mentre

che tu verrai ne l'orribil sabbione.

Pero` riguarda ben; si` vederai cose che torrien fede al mio sermone>>.

Io sentia d'ogne parte trarre guai,

e non vedea persona che 'l facesse; per ch'io tutto smarrito m'arrestai.

Cred'io ch'ei credette ch'io credesse

che tante voci uscisser, tra quei bronchi da gente che per noi si nascondesse.

Pero` disse 'l maestro
<<Se tu tronchi qualche fraschetta d'una d'este piante, li pensier c'hai si faran tutti monchi>>.

Allor porsi la mano un poco avante,

e colsi un ramicel da un gran pruno; e 'l tronco suo grido`: <<Perche' mi schiante?>>.

Da che fatto fu poi di sangue bruno,

ricomincio` a dir: <<Perche' mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:

ben dovrebb'esser la tua man piu` pia, se state fossimo anime di serpi>>.

Come d'un stizzo verde ch'arso sia

da l'un de'capi, che da l'altro geme e cigola per vento che va via,

si` de la scheggia rotta usciva insieme

parole e sangue; ond'io lasciai la cima cadere, e stetti come l'uom che teme.

<<S'elli avesse potuto creder prima>>,

rispuose 'l savio mio, <<anima lesa, cio` c'ha veduto pur con la mia rima,

non averebbe in te la man distesa;

ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.

Ma dilli chi tu fosti, si` che 'n vece

d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi nel mondo su`, dove tornar li lece>>.

E
'l tronco: <<Si` col dolce dir m'adeschi, ch'i' non posso tacere; e voi non gravi perch'io un poco a ragionar m'inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi

del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, si` soavi,

che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi:

fede portai al glorioso offizio, tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.

La meretrice che mai da l'ospizio

di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio,

infiammo` contra me li animi tutti;

e li 'nfiammati infiammar si` Augusto, che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.

L'animo mio, per disdegnoso gusto,

credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nove radici d'esto legno

vi giuro che gia` mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d'onor si` degno.

E
se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che 'nvidia le diede>>.

Un poco attese, e poi <<Da ch'el si tace>>,

disse 'l poeta a me, <<non perder l'ora; ma parla, e chiedi a lui, se piu` ti piace>>.

Ond'io a lui
<<Domandal tu ancora di quel che credi ch'a me satisfaccia; ch'i' non potrei, tanta pieta` m'accora>>.
Percio` ricomincio`
<<Se l'om ti faccia liberamente cio` che 'l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia

di dirne come l'anima si lega

in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s'alcuna mai di tai membra si spiega>>.

Allor soffio` il tronco forte, e poi

si converti` quel vento in cotal voce: <<Brievemente sara` risposto a voi.

Quando si parte l'anima feroce

dal corpo ond'ella stessa s'e` disvelta, Minos la manda a la settima foce.

Cade in la selva, e non l'e` parte scelta;

ma la` dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena e in pianta silvestra:

l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra.

Come l'altre verrem per nostre spoglie,

ma non pero` ch'alcuna sen rivesta, che' non e` giusto aver cio` ch'om si toglie.

Qui le trascineremo, e per la mesta

selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de l'ombra sua molesta>>.

Noi eravamo ancora al tronco attesi,

credendo ch'altro ne volesse dire, quando noi fummo d'un romor sorpresi,

similemente a colui che venire

sente 'l porco e la caccia a la sua posta, ch'ode le bestie, e le frasche stormire.

Ed ecco due da la sinistra costa,

nudi e graffiati, fuggendo si` forte, che de la selva rompieno ogni rosta.

Quel dinanzi
<<Or accorri, accorri, morte!>>. E l'altro, cui pareva tardar troppo,

gridava: <<Lano, si` non furo accorte

le gambe tue a le giostre dal Toppo!>>.

E poi che forse li fallia la lena, di se' e d'un cespuglio fece un groppo.

Di rietro a loro era la selva piena

di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch'uscisser di catena.

In quel che s'appiatto` miser li denti,

e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti.

Presemi allor la mia scorta per mano,

e menommi al cespuglio che piangea, per le rotture sanguinenti in vano.

<<O Iacopo>>, dicea, <<da Santo Andrea,

che t'e` giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?>>.

Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo,

disse <<Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?>>.

Ed elli a noi
<<O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c'ha le mie fronde si` da me disgiunte,

raccoglietele al pie` del tristo cesto.

I' fui de la citta` che nel Batista muto` il primo padrone; ond'ei per questo

sempre con l'arte sua la fara` trista;

e se non fosse che 'n sul passo d'Arno rimane ancor di lui alcuna vista,

que' cittadin che poi la rifondarno

sovra 'l cener che d'Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno.

Io fei gibbetto a me de le mie case>>.


Inferno: Canto XIV


Poi che la carita` del natio loco

mi strinse, raunai le fronde sparte, e rende'le a colui, ch'era gia` fioco.

Indi venimmo al fine ove si parte

lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte.

A
ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove.

La dolorosa selva l'e` ghirlanda

intorno, come 'l fosso tristo ad essa: quivi fermammo i passi a randa a randa.

Lo spazzo era una rena arida e spessa,

non d'altra foggia fatta che colei che fu da' pie` di Caton gia` soppressa.

O
vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge cio` che fu manifesto a li occhi miei!

D'anime nude vidi molte gregge

che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge.

Supin giacea in terra alcuna gente,

alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continuamente.

Quella che giva intorno era piu` molta,

e quella men che giacea al tormento, ma piu` al duolo avea la lingua sciolta.

Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,

piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento.

Quali Alessandro in quelle parti calde

d'India vide sopra 'l suo stuolo fiamme cadere infino a terra salde,

per ch'ei provide a scalpitar lo suolo

con le sue schiere, accio` che lo vapore mei si stingueva mentre ch'era solo:

tale scendeva l'etternale ardore;

onde la rena s'accendea, com'esca sotto focile, a doppiar lo dolore.

Sanza riposo mai era la tresca

de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da se' l'arsura fresca.

I' cominciai
<<Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ' demon duri ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci,

chi e` quel grande che non par che curi

lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, si` che la pioggia non par che 'l marturi?>>.

E
quel medesmo, che si fu accorto ch'io domandava il mio duca di lui,

grido`: <<Qual io fui vivo, tal son morto.

Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui

crucciato prese la folgore aguta onde l'ultimo di` percosso fui;

  • s'elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!",

si` com'el fece a la pugna di Flegra,

e me saetti con tutta sua forza, non ne potrebbe aver vendetta allegra>>.

Allora il duca mio parlo` di forza

tanto, ch'i' non l'avea si` forte udito: <<O Capaneo, in cio` che non s'ammorza

la tua superbia, se' tu piu` punito:

nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito>>.

Poi si rivolse a me con miglior labbia

dicendo: <<Quei fu l'un d'i sette regi ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia

Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi;

ma, com'io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi.

Or mi vien dietro, e guarda che non metti,

ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti>>.

Tacendo divenimmo la` 've spiccia

fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia.

Quale del Bulicame esce ruscello

che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giu` sen giva quello.

Lo fondo suo e ambo le pendici

fatt'era 'n pietra, e ' margini dallato; per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.

<<Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato,

poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno e` negato,

cosa non fu da li tuoi occhi scorta

notabile com'e` 'l presente rio, che sovra se' tutte fiammelle ammorta>>.

Queste parole fuor del duca mio;

per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto di cui largito m'avea il disio.

<<In mezzo mar siede un paese guasto>>,

diss'elli allora, <<che s'appella Creta, sotto 'l cui rege fu gia` 'l mondo casto.

Una montagna v'e` che gia` fu lieta

d'acqua e di fronde, che si chiamo` Ida: or e` diserta come cosa vieta.

Rea la scelse gia` per cuna fida

del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida.

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,

che tien volte le spalle inver' Dammiata e Roma guarda come suo speglio.

La sua testa e` di fin oro formata,

e puro argento son le braccia e 'l petto, poi e` di rame infino a la forcata;

da indi in giuso e` tutto ferro eletto,

salvo che 'l destro piede e` terra cotta; e sta 'n su quel piu` che 'n su l'altro, eretto.

Ciascuna parte, fuor che l'oro, e` rotta

d'una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, foran quella grotta.

Lor corso in questa valle si diroccia:

fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giu` per questa stretta doccia

infin, la` ove piu` non si dismonta

fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, pero` qui non si conta>>.

E
io a lui: <<Se 'l presente rigagno si diriva cosi` dal nostro mondo, perche' ci appar pur a questo vivagno?>>.
Ed elli a me
<<Tu sai che 'l loco e` tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, giu` calando al fondo,

non se' ancor per tutto il cerchio volto:

per che, se cosa n'apparisce nova, non de' addur maraviglia al tuo volto>>.

E
io ancor: <<Maestro, ove si trova Flegetonta e Lete`? che' de l'un taci, e l'altro di' che si fa d'esta piova>>.

<<In tutte tue question certo mi piaci>>,

rispuose; <<ma 'l bollor de l'acqua rossa dovea ben solver l'una che tu faci.

Lete` vedrai, ma fuor di questa fossa,

la` dove vanno l'anime a lavarsi quando la colpa pentuta e` rimossa>>.

Poi disse
<<Omai e` tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi,

e sopra loro ogne vapor si spegne>>.


Inferno: Canto XV


Ora cen porta l'un de' duri margini;

e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, si` che dal foco salva l'acqua e li argini.

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,

temendo 'l fiotto che 'nver lor s'avventa, fanno lo schermo perche' 'l mar si fuggia;

e
quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta:
a
tale imagine eran fatti quelli, tutto che ne' si` alti ne' si` grossi, qual che si fosse, lo maestro felli.

Gia` eravam da la selva rimossi

tanto, ch'i' non avrei visto dov'era, perch'io in dietro rivolto mi fossi,

quando incontrammo d'anime una schiera

che venian lungo l'argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera

guardare uno altro sotto nuova luna;

e si` ver' noi aguzzavan le ciglia come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.

Cosi` adocchiato da cotal famiglia,

fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e grido`: <<Qual maraviglia!>>.

E
io, quando 'l suo braccio a me distese, ficcai li occhi per lo cotto aspetto, si` che 'l viso abbrusciato non difese

la conoscenza sua al mio 'ntelletto;

e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: <<Siete voi qui, ser Brunetto?>>.

E
quelli: <<O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia>>.
I' dissi lui
<<Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m'asseggia, farol, se piace a costui che vo seco>>.

<<O figliuol>>, disse, <<qual di questa greggia

s'arresta punto, giace poi cent'anni sanz'arrostarsi quando 'l foco il feggia.

Pero` va oltre
i' ti verro` a' panni; e poi rigiugnero` la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni>>.

I' non osava scender de la strada

per andar par di lui; ma 'l capo chino tenea com'uom che reverente vada.

El comincio`
<<Qual fortuna o destino anzi l'ultimo di` qua giu` ti mena? e chi e` questi che mostra 'l cammino?>>.

<<La` su` di sopra, in la vita serena>>,

rispuos'io lui, <<mi smarri' in una valle, avanti che l'eta` mia fosse piena.

Pur ier mattina le volsi le spalle:

questi m'apparve, tornand'io in quella, e reducemi a ca per questo calle>>.

Ed elli a me
<<Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto, se ben m'accorsi ne la vita bella;
e
s'io non fossi si` per tempo morto, veggendo il cielo a te cosi` benigno, dato t'avrei a l'opera conforto.

Ma quello ingrato popolo maligno

che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si fara`, per tuo ben far, nimico:

ed e` ragion, che' tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.


Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;

gent'e` avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba,

che l'una parte e l'altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l'erba.

Faccian le bestie fiesolane strame

di lor medesme, e non tocchin la pianta, s'alcuna surge ancora in lor letame,

in cui riviva la sementa santa

di que' Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta>>.

<<Se fosse tutto pieno il mio dimando>>,

rispuos'io lui, <<voi non sareste ancora de l'umana natura posto in bando;

che' 'n la mente m'e` fitta, e or m'accora,

la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m'insegnavate come l'uom s'etterna:

e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo convien che ne la mia lingua si scerna.

Cio` che narrate di mio corso scrivo,

e serbolo a chiosar con altro testo a donna che sapra`, s'a lei arrivo.

Tanto vogl'io che vi sia manifesto,

pur che mia coscienza non mi garra, che a la Fortuna, come vuol, son presto.

Non e` nuova a li orecchi miei tal arra:

pero` giri Fortuna la sua rota come le piace, e 'l villan la sua marra>>.

Lo mio maestro allora in su la gota

destra si volse in dietro, e riguardommi; poi disse: <<Bene ascolta chi la nota>>.

Ne' per tanto di men parlando vommi

con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni piu` noti e piu` sommi.

Ed elli a me
<<Saper d'alcuno e` buono; de li altri fia laudabile tacerci, che' 'l tempo saria corto a tanto suono.

In somma sappi che tutti fur cherci

e litterati grandi e di gran fama, d'un peccato medesmo al mondo lerci.

Priscian sen va con quella turba grama,

e Francesco d'Accorso anche; e vedervi, s'avessi avuto di tal tigna brama,

colui potei che dal servo de' servi

fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, dove lascio` li mal protesi nervi.

Di piu` direi; ma 'l venire e 'l sermone

piu` lungo esser non puo`, pero` ch'i' veggio la` surger nuovo fummo del sabbione.

Gente vien con la quale esser non deggio.

Sieti raccomandato il mio Tesoro nel qual io vivo ancora, e piu` non cheggio>>.

Poi si rivolse, e parve di coloro

che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.


Inferno: Canto XVI


Gia` era in loco onde s'udia 'l rimbombo

de l'acqua che cadea ne l'altro giro, simile a quel che l'arnie fanno rombo,

quando tre ombre insieme si partiro,

correndo, d'una torma che passava sotto la pioggia de l'aspro martiro.

Venian ver noi, e ciascuna gridava:

<<Sostati tu ch'a l'abito ne sembri esser alcun di nostra terra prava>>.

Ahime`, che piaghe vidi ne' lor membri

ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.

A
le lor grida il mio dottor s'attese; volse 'l viso ver me, e: <<Or aspetta>>, disse <<a costor si vuole esser cortese.
E
se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i' dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta>>.

Ricominciar, come noi restammo, ei

l'antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di se' tutti e trei.

Qual sogliono i campion far nudi e unti,

avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti,

cosi` rotando, ciascuno il visaggio

drizzava a me, si` che 'n contraro il collo faceva ai pie` continuo viaggio.

E
<<Se miseria d'esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi>>, comincio` l'uno <<e 'l tinto aspetto e brollo,

la fama nostra il tuo animo pieghi

a dirne chi tu se', che i vivi piedi cosi` sicuro per lo 'nferno freghi.

Questi, l'orme di cui pestar mi vedi,

tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi:

nepote fu de la buona Gualdrada;

Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada.

L'altro, ch'appresso me la rena trita,

e` Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo su` dovria esser gradita.

E
io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui; e certo la fiera moglie piu` ch'altro mi nuoce>>.

S'i' fossi stato dal foco coperto,

gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che 'l dottor l'avria sofferto;

ma perch'io mi sarei brusciato e cotto,

vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto.

Poi cominciai
<<Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia,

tosto che questo mio segnor mi disse

parole per le quali i' mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse.

Di vostra terra sono, e sempre mai

l'ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai.

Lascio lo fele e vo per dolci pomi

promessi a me per lo verace duca; ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi>>.

<<Se lungamente l'anima conduca

le membra tue>>, rispuose quelli ancora, <<e se la fama tua dopo te luca,

cortesia e valor di` se dimora

ne la nostra citta` si` come suole,

  • se del tutto se n'e` gita fora;

che' Guiglielmo Borsiere, il qual si duole

con noi per poco e va la` coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole>>.

<<La gente nuova e i subiti guadagni

orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, si` che tu gia` ten piagni>>.

Cosi` gridai con la faccia levata;

e i tre, che cio` inteser per risposta, guardar l'un l'altro com'al ver si guata.

<<Se l'altre volte si` poco ti costa>>,

rispuoser tutti <<il satisfare altrui, felice te se si` parli a tua posta!

Pero`, se campi d'esti luoghi bui

e torni a riveder le belle stelle, quando ti giovera` dicere "I' fui",

fa che di noi a la gente favelle>>.

Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle.

Un amen non saria potuto dirsi

tosto cosi` com'e' fuoro spariti; per ch'al maestro parve di partirsi.

Io lo seguiva, e poco eravam iti,

che 'l suon de l'acqua n'era si` vicino, che per parlar saremmo a pena uditi.

Come quel fiume c'ha proprio cammino

prima dal Monte Viso 'nver' levante, da la sinistra costa d'Apennino,

che si chiama Acquacheta suso, avante

che si divalli giu` nel basso letto, e a Forli` di quel nome e` vacante,

rimbomba la` sovra San Benedetto

de l'Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto;

cosi`, giu` d'una ripa discoscesa,

trovammo risonar quell'acqua tinta, si` che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa.

Io avea una corda intorno cinta,

e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta.

Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta,

si` come 'l duca m'avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta.

Ond'ei si volse inver' lo destro lato,

e alquanto di lunge da la sponda la gitto` giuso in quell'alto burrato.

'E' pur convien che novita` risponda'

dicea fra me medesmo 'al novo cenno che 'l maestro con l'occhio si` seconda'.

Ahi quanto cauti li uomini esser dienno

presso a color che non veggion pur l'ovra, ma per entro i pensier miran col senno!

El disse a me
<<Tosto verra` di sovra cio` ch'io attendo e che il tuo pensier sogna: tosto convien ch'al tuo viso si scovra>>.

Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna

de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, pero` che sanza colpa fa vergogna;

ma qui tacer nol posso; e per le note

di questa comedia, lettor, ti giuro, s'elle non sien di lunga grazia vote,

ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro

venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro,

si` come torna colui che va giuso

talora a solver l'ancora ch'aggrappa

  • scoglio o altro che nel mare e` chiuso,

che 'n su` si stende, e da pie` si rattrappa.


Inferno: Canto XVII


<<Ecco la fiera con la coda aguzza,

che passa i monti, e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!>>.

Si` comincio` lo mio duca a parlarmi;

e accennolle che venisse a proda vicino al fin d'i passeggiati marmi.

E
quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivo` la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda.

La faccia sua era faccia d'uom giusto,

tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto;

due branche avea pilose insin l'ascelle;

lo dosso e 'l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle.

Con piu` color, sommesse e sovraposte

non fer mai drappi Tartari ne' Turchi, ne' fuor tai tele per Aragne imposte.

Come tal volta stanno a riva i burchi,

che parte sono in acqua e parte in terra, e come la` tra li Tedeschi lurchi

lo bivero s'assetta a far sua guerra,

cosi` la fiera pessima si stava su l'orlo ch'e` di pietra e 'l sabbion serra.

Nel vano tutta sua coda guizzava,

torcendo in su` la venenosa forca ch'a guisa di scorpion la punta armava.

Lo duca disse
<<Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che cola` si corca>>.

Pero` scendemmo a la destra mammella,

e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella.

E
quando noi a lei venuti semo, poco piu` oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo.

Quivi 'l maestro <<Accio` che tutta piena

esperienza d'esto giron porti>>, mi disse, <<va, e vedi la lor mena.

Li tuoi ragionamenti sian la` corti:

mentre che torni, parlero` con questa, che ne conceda i suoi omeri forti>>.

Cosi` ancor su per la strema testa

di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta.

Per li occhi fora scoppiava lor duolo;

e` di qua, di la` soccorrien con le mani quando a' vapori, e quando al caldo suolo:

non altrimenti fan di state i cani

or col ceffo, or col pie`, quando son morsi

  • da pulci o da mosche o da tafani.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,

ne' quali 'l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi

che dal collo a ciascun pendea una tasca

ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca.

E
com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,

vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca piu` che burro.

E
un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco,

mi disse: <<Che fai tu in questa fossa?

Or te ne va; e perche' se' vivo anco,

sappi che 'l mio vicin Vitaliano sedera` qui dal mio sinistro fianco.

Con questi Fiorentin son padoano:

spesse fiate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano,

che rechera` la tasca con tre becchi!">>.

Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi.

E
io, temendo no 'l piu` star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse.

Trova' il duca mio ch'era salito

gia` su la groppa del fiero animale, e disse a me: <<Or sie forte e ardito.

Omai si scende per si` fatte scale:

monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, si` che la coda non possa far male>>.

Qual e` colui che si` presso ha 'l riprezzo

de la quartana, c'ha gia` l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo,

tal divenn'io a le parole porte;

ma vergogna mi fe' le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte.

I' m'assettai in su quelle spallacce;

si` volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'.

Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne

ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne;

e
disse: <<Gerion, moviti omai: le rote larghe e lo scender sia poco: pensa la nova soma che tu hai>>.

Come la navicella esce di loco

in dietro in dietro, si` quindi si tolse; e poi ch'al tutto si senti` a gioco,

la` 'v'era 'l petto, la coda rivolse,

e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a se' raccolse.

Maggior paura non credo che fosse

quando Fetonte abbandono` li freni, per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;

ne' quando Icaro misero le reni

senti` spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui <<Mala via tieni!>>,

che fu la mia, quando vidi ch'i' era

ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera.

Ella sen va notando lenta lenta:

rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta.

Io sentia gia` da la man destra il gorgo

far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi 'n giu` la testa sporgo.

Allor fu' io piu` timido a lo stoscio,

pero` ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond'io tremando tutto mi raccoscio.

E
vidi poi, che' nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti.

Come 'l falcon ch'e` stato assai su l'ali,

che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere <<Ome`, tu cali!>>,

discende lasso onde si move isnello,

per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello;

cosi` ne puose al fondo Gerione

al pie` al pie` de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone,

si dileguo` come da corda cocca.


Inferno: Canto XVIII


Luogo e` in inferno detto Malebolge,

tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge.

Nel dritto mezzo del campo maligno

vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicero` l'ordigno.

Quel cinghio che rimane adunque e` tondo

tra 'l pozzo e 'l pie` de l'alta ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo.

Quale, dove per guardia de le mura

piu` e piu` fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura,

tale imagine quivi facean quelli;

e come a tai fortezze da' lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli,

cosi` da imo de la roccia scogli

movien che ricidien li argini e ' fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli.

In questo luogo, de la schiena scossi

di Gerion, trovammoci; e 'l poeta tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

A
la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta.

Nel fondo erano ignudi i peccatori;

dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto, di la` con noi, ma con passi maggiori,

come i Roman per l'essercito molto,

l'anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto,

che da l'un lato tutti hanno la fronte

verso 'l castello e vanno a Santo Pietro; da l'altra sponda vanno verso 'l monte.

Di qua, di la`, su per lo sasso tetro

vidi demon cornuti con gran ferze, che li battien crudelmente di retro.

Ahi come facean lor levar le berze

a le prime percosse! gia` nessuno le seconde aspettava ne' le terze.

Mentr'io andava, li occhi miei in uno

furo scontrati; e io si` tosto dissi: <<Gia` di veder costui non son digiuno>>.

Per ch'io a figurarlo i piedi affissi;

e 'l dolce duca meco si ristette, e assentio ch'alquanto in dietro gissi.

E
quel frustato celar si credette bassando 'l viso; ma poco li valse,

ch'io dissi: <<O tu che l'occhio a terra gette,

se le fazion che porti non son false,

Venedico se' tu Caccianemico. Ma che ti mena a si` pungenti salse?>>.

Ed elli a me
<<Mal volentier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico.

I' fui colui che la Ghisolabella

condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella.

E
non pur io qui piango bolognese; anzi n'e` questo luogo tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese
a
dicer 'sipa' tra Savena e Reno; e se di cio` vuoi fede o testimonio, recati a mente il nostro avaro seno>>.

Cosi` parlando il percosse un demonio

de la sua scuriada, e disse: <<Via, ruffian! qui non son femmine da conio>>.

I' mi raggiunsi con la scorta mia;

poscia con pochi passi divenimmo la` 'v'uno scoglio de la ripa uscia.

Assai leggeramente quel salimmo;

e volti a destra su per la sua scheggia, da quelle cerchie etterne ci partimmo.

Quando noi fummo la` dov'el vaneggia

di sotto per dar passo a li sferzati, lo duca disse: <<Attienti, e fa che feggia

lo viso in te di quest'altri mal nati,

ai quali ancor non vedesti la faccia pero` che son con noi insieme andati>>.

Del vecchio ponte guardavam la traccia

che venia verso noi da l'altra banda, e che la ferza similmente scaccia.

E
'l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: <<Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda:

quanto aspetto reale ancor ritene!

Quelli e` Iason, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati fene.

Ello passo` per l'isola di Lenno,

poi che l'ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno.

Ivi con segni e con parole ornate

Isifile inganno`, la giovinetta che prima avea tutte l'altre ingannate.

Lasciolla quivi, gravida, soletta;

tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta.

Con lui sen va chi da tal parte inganna:

e questo basti de la prima valle sapere e di color che 'n se' assanna>>.

Gia` eravam la` 've lo stretto calle

con l'argine secondo s'incrocicchia, e fa di quello ad un altr'arco spalle.

Quindi sentimmo gente che si nicchia

ne l'altra bolgia e che col muso scuffa, e se' medesma con le palme picchia.

Le ripe eran grommate d'una muffa,

per l'alito di giu` che vi s'appasta, che con li occhi e col naso facea zuffa.

Lo fondo e` cupo si`, che non ci basta

loco a veder sanza montare al dosso de l'arco, ove lo scoglio piu` sovrasta.

Quivi venimmo; e quindi giu` nel fosso

vidi gente attuffata in uno sterco che da li uman privadi parea mosso.

E
mentre ch'io la` giu` con l'occhio cerco, vidi un col capo si` di merda lordo, che non parea s'era laico o cherco.
Quei mi sgrido`
<<Perche' se' tu si` gordo di riguardar piu` me che li altri brutti?>>.

E io a lui: <<Perche', se ben ricordo,

gia` t'ho veduto coi capelli asciutti,

e se' Alessio Interminei da Lucca: pero` t'adocchio piu` che li altri tutti>>.

Ed elli allor, battendosi la zucca:

<<Qua giu` m'hanno sommerso le lusinghe ond'io non ebbi mai la lingua stucca>>.

Appresso cio` lo duca <<Fa che pinghe>>,

mi disse <<il viso un poco piu` avante, si` che la faccia ben con l'occhio attinghe

di quella sozza e scapigliata fante

che la` si graffia con l'unghie merdose, e or s'accoscia e ora e` in piedi stante.

Taide e`, la puttana che rispuose

al drudo suo quando disse "Ho io grazie grandi apo te?": "Anzi maravigliose!".

E quinci sien le nostre viste sazie>>.


Inferno: Canto XIX


O
Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci

per oro e per argento avolterate,

or convien che per voi suoni la tromba, pero` che ne la terza bolgia state.

Gia` eravamo, a la seguente tomba,

montati de lo scoglio in quella parte ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.

O
somma sapienza, quanta e` l'arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtu` comparte!

Io vidi per le coste e per lo fondo

piena la pietra livida di fori, d'un largo tutti e ciascun era tondo.

Non mi parean men ampi ne' maggiori

che que' che son nel mio bel San Giovanni, fatti per loco d'i battezzatori;

l'un de li quali, ancor non e` molt'anni,

rupp'io per un che dentro v'annegava: e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni.

Fuor de la bocca a ciascun soperchiava

d'un peccator li piedi e de le gambe infino al grosso, e l'altro dentro stava.

Le piante erano a tutti accese intrambe;

per che si` forte guizzavan le giunte, che spezzate averien ritorte e strambe.

Qual suole il fiammeggiar de le cose unte

muoversi pur su per la strema buccia, tal era li` dai calcagni a le punte.

<<Chi e` colui, maestro, che si cruccia

guizzando piu` che li altri suoi consorti>>, diss'io, <<e cui piu` roggia fiamma succia?>>.

Ed elli a me
<<Se tu vuo' ch'i' ti porti la` giu` per quella ripa che piu` giace, da lui saprai di se' e de' suoi torti>>.
E
io: <<Tanto m'e` bel, quanto a te piace: tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace>>.

Allor venimmo in su l'argine quarto:

volgemmo e discendemmo a mano stanca la` giu` nel fondo foracchiato e arto.

Lo buon maestro ancor de la sua anca

non mi dipuose, si` mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca.

<<O qual che se' che 'l di su` tien di sotto,

anima trista come pal commessa>>, comincia' io a dir, <<se puoi, fa motto>>.

Io stava come 'l frate che confessa

lo perfido assessin, che, poi ch'e` fitto, richiama lui, per che la morte cessa.

Ed el grido`
<<Se' tu gia` costi` ritto, se' tu gia` costi` ritto, Bonifazio? Di parecchi anni mi menti` lo scritto.

Se' tu si` tosto di quell'aver sazio

per lo qual non temesti torre a 'nganno la bella donna, e poi di farne strazio?>>.

Tal mi fec'io, quai son color che stanno,

per non intender cio` ch'e` lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno.

Allor Virgilio disse
<<Dilli tosto: "Non son colui, non son colui che credi">>; e io rispuosi come a me fu imposto.

Per che lo spirto tutti storse i piedi;

poi, sospirando e con voce di pianto, mi disse: <<Dunque che a me richiedi?

Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto,

che tu abbi pero` la ripa corsa, sappi ch'i' fui vestito del gran manto;

e
veramente fui figliuol de l'orsa, cupido si` per avanzar li orsatti, che su` l'avere e qui me misi in borsa.

Di sotto al capo mio son li altri tratti

che precedetter me simoneggiando, per le fessure de la pietra piatti.

La` giu` caschero` io altresi` quando

verra` colui ch'i' credea che tu fossi allor ch'i' feci 'l subito dimando.

Ma piu` e` 'l tempo gia` che i pie` mi cossi

e ch'i' son stato cosi` sottosopra, ch'el non stara` piantato coi pie` rossi:

che' dopo lui verra` di piu` laida opra

di ver' ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra.

Novo Iason sara`, di cui si legge

ne' Maccabei; e come a quel fu molle suo re, cosi` fia lui chi Francia regge>>.

Io non so s'i' mi fui qui troppo folle,

ch'i' pur rispuosi lui a questo metro: <<Deh, or mi di`: quanto tesoro volle

Nostro Segnore in prima da san Pietro

ch'ei ponesse le chiavi in sua balia? Certo non chiese se non "Viemmi retro".

Ne' Pier ne' li altri tolsero a Matia

oro od argento, quando fu sortito al loco che perde' l'anima ria.

Pero` ti sta, che' tu se' ben punito;

e guarda ben la mal tolta moneta ch'esser ti fece contra Carlo ardito.

E
se non fosse ch'ancor lo mi vieta la reverenza delle somme chiavi che tu tenesti ne la vita lieta,

io userei parole ancor piu` gravi;

che' la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi.

Di voi pastor s'accorse il Vangelista,

quando colei che siede sopra l'acque puttaneggiar coi regi a lui fu vista;

quella che con le sette teste nacque,

e da le diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque.

Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento;

e che altro e` da voi a l'idolatre, se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,

non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!>>.

E mentr'io li cantava cotai note,

  • ira o coscienza che 'l mordesse, forte spingava con ambo le piote.

I' credo ben ch'al mio duca piacesse,

con si` contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse.

Pero` con ambo le braccia mi prese;

e poi che tutto su mi s'ebbe al petto, rimonto` per la via onde discese.

Ne' si stanco` d'avermi a se' distretto,

si` men porto` sovra 'l colmo de l'arco che dal quarto al quinto argine e` tragetto.

Quivi soavemente spuose il carco,

soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe a le capre duro varco.

Indi un altro vallon mi fu scoperto.


Inferno: Canto XX


Di nova pena mi conven far versi

e dar matera al ventesimo canto de la prima canzon ch'e` d'i sommersi.

Io era gia` disposto tutto quanto

a riguardar ne lo scoperto fondo, che si bagnava d'angoscioso pianto;

e
vidi gente per lo vallon tondo venir, tacendo e lagrimando, al passo che fanno le letane in questo mondo.

Come 'l viso mi scese in lor piu` basso,

mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso;

che' da le reni era tornato 'l volto,

e in dietro venir li convenia, perche' 'l veder dinanzi era lor tolto.

Forse per forza gia` di parlasia

si travolse cosi` alcun del tutto; ma io nol vidi, ne' credo che sia.

Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto

di tua lezione, or pensa per te stesso com'io potea tener lo viso asciutto,

quando la nostra imagine di presso

vidi si` torta, che 'l pianto de li occhi le natiche bagnava per lo fesso.

Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi

del duro scoglio, si` che la mia scorta mi disse: <<Ancor se' tu de li altri sciocchi?

Qui vive la pieta` quand'e` ben morta;

chi e` piu` scellerato che colui che al giudicio divin passion comporta?

Drizza la testa, drizza, e vedi a cui

s'aperse a li occhi d'i Teban la terra; per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui,

Anfiarao? perche' lasci la guerra?".

E non resto` di ruinare a valle fino a Minos che ciascheduno afferra.

Mira c'ha fatto petto de le spalle:

perche' volle veder troppo davante, di retro guarda e fa retroso calle.

Vedi Tiresia, che muto` sembiante

quando di maschio femmina divenne cangiandosi le membra tutte quante;

e
prima, poi, ribatter li convenne li duo serpenti avvolti, con la verga, che riavesse le maschili penne.

Aronta e` quel ch'al ventre li s'atterga,

che ne' monti di Luni, dove ronca lo Carrarese che di sotto alberga,

ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca

per sua dimora; onde a guardar le stelle e 'l mar no li era la veduta tronca.

E
quella che ricuopre le mammelle, che tu non vedi, con le trecce sciolte, e ha di la` ogne pilosa pelle,

Manto fu, che cerco` per terre molte;

poscia si puose la` dove nacqu'io; onde un poco mi piace che m'ascolte.

Poscia che 'l padre suo di vita uscio,

e venne serva la citta` di Baco, questa gran tempo per lo mondo gio.

Suso in Italia bella giace un laco,

a pie` de l'Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, c'ha nome Benaco.

Per mille fonti, credo, e piu` si bagna

tra Garda e Val Camonica e Pennino de l'acqua che nel detto laco stagna.

Loco e` nel mezzo la` dove 'l trentino

pastore e quel di Brescia e 'l veronese segnar poria, s'e' fesse quel cammino.

Siede Peschiera, bello e forte arnese

da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi, ove la riva 'ntorno piu` discese.

Ivi convien che tutto quanto caschi

cio` che 'n grembo a Benaco star non puo`, e fassi fiume giu` per verdi paschi.

Tosto che l'acqua a correr mette co,

non piu` Benaco, ma Mencio si chiama fino a Governol, dove cade in Po.

Non molto ha corso, ch'el trova una lama,

ne la qual si distende e la 'mpaluda; e suol di state talor essere grama.

Quindi passando la vergine cruda

vide terra, nel mezzo del pantano, sanza coltura e d'abitanti nuda.

Li`, per fuggire ogne consorzio umano,

ristette con suoi servi a far sue arti, e visse, e vi lascio` suo corpo vano.

Li uomini poi che 'ntorno erano sparti

s'accolsero a quel loco, ch'era forte per lo pantan ch'avea da tutte parti.

Fer la citta` sovra quell'ossa morte;

e per colei che 'l loco prima elesse, Mantua l'appellar sanz'altra sorte.

Gia` fuor le genti sue dentro piu` spesse,

prima che la mattia da Casalodi da Pinamonte inganno ricevesse.

Pero` t'assenno che, se tu mai odi

originar la mia terra altrimenti, la verita` nulla menzogna frodi>>.

E
io: <<Maestro, i tuoi ragionamenti mi son si` certi e prendon si` mia fede, che li altri mi sarien carboni spenti.

Ma dimmi, de la gente che procede,

se tu ne vedi alcun degno di nota; che' solo a cio` la mia mente rifiede>>.

Allor mi disse
<<Quel che da la gota porge la barba in su le spalle brune,

fu - quando Grecia fu di maschi vota,

si` ch'a pena rimaser per le cune -

augure, e diede 'l punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune.

Euripilo ebbe nome, e cosi` 'l canta

l'alta mia tragedia in alcun loco: ben lo sai tu che la sai tutta quanta.

Quell'altro che ne' fianchi e` cosi` poco,

Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe 'l gioco.

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,

ch'avere inteso al cuoio e a lo spago ora vorrebbe, ma tardi si pente.

Vedi le triste che lasciaron l'ago,

la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; fecer malie con erbe e con imago.

Ma vienne omai, che' gia` tiene 'l confine

d'amendue li emisperi e tocca l'onda sotto Sobilia Caino e le spine;

e
gia` iernotte fu la luna tonda: ben ten de' ricordar, che' non ti nocque alcuna volta per la selva fonda>>.

Si` mi parlava, e andavamo introcque.


Inferno: Canto XXI


Cosi` di ponte in ponte, altro parlando

che la mia comedia cantar non cura, venimmo; e tenavamo il colmo, quando

restammo per veder l'altra fessura

di Malebolge e li altri pianti vani; e vidila mirabilmente oscura.

Quale ne l'arzana` de' Viniziani

bolle l'inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani,

che' navicar non ponno - in quella vece

chi fa suo legno novo e chi ristoppa le coste a quel che piu` viaggi fece;

chi ribatte da proda e chi da poppa;

altri fa remi e altri volge sarte; chi terzeruolo e artimon rintoppa -;

tal, non per foco, ma per divin'arte,

bollia la` giuso una pegola spessa, che 'nviscava la ripa d'ogne parte.

I' vedea lei, ma non vedea in essa

mai che le bolle che 'l bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa.

Mentr'io la` giu` fisamente mirava,

lo duca mio, dicendo <<Guarda, guarda!>>, mi trasse a se' del loco dov'io stava.

Allor mi volsi come l'uom cui tarda

di veder quel che li convien fuggire e cui paura subita sgagliarda,

che, per veder, non indugia 'l partire:

e vidi dietro a noi un diavol nero correndo su per lo scoglio venire.

Ahi quant'elli era ne l'aspetto fero!

e quanto mi parea ne l'atto acerbo, con l'ali aperte e sovra i pie` leggero!

L'omero suo, ch'era aguto e superbo,

carcava un peccator con ambo l'anche, e quei tenea de' pie` ghermito 'l nerbo.

Del nostro ponte disse
<<O Malebranche, ecco un de li anzian di Santa Zita! Mettetel sotto, ch'i' torno per anche
a
quella terra che n'e` ben fornita: ogn'uom v'e` barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar vi si fa ita>>.

La` giu` 'l butto`, e per lo scoglio duro

si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo.

Quel s'attuffo`, e torno` su` convolto;

ma i demon che del ponte avean coperchio, gridar: <<Qui non ha loco il Santo Volto:

qui si nuota altrimenti che nel Serchio!

Pero`, se tu non vuo' di nostri graffi, non far sopra la pegola soverchio>>.

Poi l'addentar con piu` di cento raffi,

disser: <<Coverto convien che qui balli, si` che, se puoi, nascosamente accaffi>>.

Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli

fanno attuffare in mezzo la caldaia la carne con li uncin, perche' non galli.

Lo buon maestro <<Accio` che non si paia

che tu ci sia>>, mi disse, <<giu` t'acquatta dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia;

e
per nulla offension che mi sia fatta, non temer tu, ch'i' ho le cose conte, perch'altra volta fui a tal baratta>>.

Poscia passo` di la` dal co del ponte;

e com'el giunse in su la ripa sesta, mestier li fu d'aver sicura fronte.

Con quel furore e con quella tempesta

ch'escono i cani a dosso al poverello che di subito chiede ove s'arresta,

usciron quei di sotto al ponticello,

e volser contra lui tutt'i runcigli; ma el grido`: <<Nessun di voi sia fello!

Innanzi che l'uncin vostro mi pigli,

traggasi avante l'un di voi che m'oda, e poi d'arruncigliarmi si consigli>>.

Tutti gridaron
<<Vada Malacoda!>>; per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi -,

e venne a lui dicendo: <<Che li approda?>>.

<<Credi tu, Malacoda, qui vedermi

esser venuto>>, disse 'l mio maestro, <<sicuro gia` da tutti vostri schermi,

sanza voler divino e fato destro?

Lascian'andar, che' nel cielo e` voluto ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro>>.

Allor li fu l'orgoglio si` caduto,

ch'e' si lascio` cascar l'uncino a' piedi, e disse a li altri: <<Omai non sia feruto>>.

E
'l duca mio a me: <<O tu che siedi tra li scheggion del ponte quatto quatto, sicuramente omai a me ti riedi>>.

Per ch'io mi mossi, e a lui venni ratto;

e i diavoli si fecer tutti avanti, si` ch'io temetti ch'ei tenesser patto;

cosi` vid'io gia` temer li fanti

ch'uscivan patteggiati di Caprona, veggendo se' tra nemici cotanti.

I' m'accostai con tutta la persona

lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi da la sembianza lor ch'era non buona.

Ei chinavan li raffi e <<Vuo' che 'l tocchi>>,

diceva l'un con l'altro, <<in sul groppone?>>. E rispondien: <<Si`, fa che gliel'accocchi!>>.

Ma quel demonio che tenea sermone

col duca mio, si volse tutto presto, e disse: <<Posa, posa, Scarmiglione!>>.

Poi disse a noi
<<Piu` oltre andar per questo iscoglio non si puo`, pero` che giace tutto spezzato al fondo l'arco sesto.
E
se l'andare avante pur vi piace, andatevene su per questa grotta; presso e` un altro scoglio che via face.

Ier, piu` oltre cinqu'ore che quest'otta,

mille dugento con sessanta sei anni compie' che qui la via fu rotta.

Io mando verso la` di questi miei

a riguardar s'alcun se ne sciorina; gite con lor, che non saranno rei>>.

<<Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina>>,

comincio` elli a dire, <<e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina.

Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo,

Ciriatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo.

Cercate 'ntorno le boglienti pane;

costor sian salvi infino a l'altro scheggio che tutto intero va sovra le tane>>.

<<Ome`, maestro, che e` quel ch'i' veggio?>>,

diss'io, <<deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.

Se tu se' si` accorto come suoli,

non vedi tu ch'e' digrignan li denti, e con le ciglia ne minaccian duoli?>>.

Ed elli a me
<<Non vo' che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch'e' fanno cio` per li lessi dolenti>>.

Per l'argine sinistro volta dienno;

ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno;

ed elli avea del cul fatto trombetta.


Inferno: Canto XXII


Io vidi gia` cavalier muover campo,

e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo;

corridor vidi per la terra vostra,

  • Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra;

quando con trombe, e quando con campane,

con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane;

ne' gia` con si` diversa cennamella

cavalier vidi muover ne' pedoni, ne' nave a segno di terra o di stella.

Noi andavam con li diece demoni.

Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

Pur a la pegola era la mia 'ntesa,

per veder de la bolgia ogne contegno e de la gente ch'entro v'era incesa.

Come i dalfini, quando fanno segno

a' marinar con l'arco de la schiena, che s'argomentin di campar lor legno,

talor cosi`, ad alleggiar la pena,

mostrav'alcun de' peccatori il dosso e nascondea in men che non balena.

E
come a l'orlo de l'acqua d'un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, si` che celano i piedi e l'altro grosso,

si` stavan d'ogne parte i peccatori;

ma come s'appressava Barbariccia, cosi` si ritraen sotto i bollori.

I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia,

uno aspettar cosi`, com'elli 'ncontra ch'una rana rimane e l'altra spiccia;

e
Graffiacan, che li era piu` di contra, li arrunciglio` le 'mpegolate chiome e trassel su`, che mi parve una lontra.

I' sapea gia` di tutti quanti 'l nome,

si` li notai quando fuorono eletti, e poi ch'e' si chiamaro, attesi come.

<<O Rubicante, fa che tu li metti

li unghioni a dosso, si` che tu lo scuoi!>>, gridavan tutti insieme i maladetti.

E
io: <<Maestro mio, fa, se tu puoi, che tu sappi chi e` lo sciagurato venuto a man de li avversari suoi>>.

Lo duca mio li s'accosto` allato;

domandollo ond'ei fosse, e quei rispuose: <<I' fui del regno di Navarra nato.

Mia madre a servo d'un segnor mi puose,

che m'avea generato d'un ribaldo, distruggitor di se' e di sue cose.

Poi fui famiglia del buon re Tebaldo:

quivi mi misi a far baratteria; di ch'io rendo ragione in questo caldo>>.

E
Ciriatto, a cui di bocca uscia d'ogne parte una sanna come a porco, li fe' sentir come l'una sdruscia.

Tra male gatte era venuto 'l sorco;

ma Barbariccia il chiuse con le braccia, e disse: <<State in la`, mentr'io lo 'nforco>>.

E
al maestro mio volse la faccia: <<Domanda>>, disse, <<ancor, se piu` disii saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia>>.
Lo duca dunque
<<Or di`: de li altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?>>. E quelli: <<I' mi partii,

poco e`, da un che fu di la` vicino.

Cosi` foss'io ancor con lui coperto, ch'i' non temerei unghia ne' uncino!>>.

E
Libicocco <<Troppo avem sofferto>>, disse; e preseli 'l braccio col runciglio, si` che, stracciando, ne porto` un lacerto.

Draghignazzo anco i volle dar di piglio

giuso a le gambe; onde 'l decurio loro si volse intorno intorno con mal piglio.

Quand'elli un poco rappaciati fuoro,

a lui, ch'ancor mirava sua ferita, domando` 'l duca mio sanza dimoro:

<<Chi fu colui da cui mala partita

di' che facesti per venire a proda?>>. Ed ei rispuose: <<Fu frate Gomita,

quel di Gallura, vasel d'ogne froda,

ch'ebbe i nemici di suo donno in mano, e fe' si` lor, che ciascun se ne loda.

Danar si tolse, e lasciolli di piano,

si` com'e' dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano.

Usa con esso donno Michel Zanche

di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche.

Ome`, vedete l'altro che digrigna:

i' direi anche, ma i' temo ch'ello non s'apparecchi a grattarmi la tigna>>.

E
'l gran proposto, volto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire,

disse: <<Fatti 'n costa`, malvagio uccello!>>.

<<Se voi volete vedere o udire>>,

ricomincio` lo spaurato appresso <<Toschi o Lombardi, io ne faro` venire;

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,

si` ch'ei non teman de le lor vendette; e io, seggendo in questo loco stesso,

per un ch'io son, ne faro` venir sette

quand'io suffolero`, com'e` nostro uso di fare allor che fori alcun si mette>>.

Cagnazzo a cotal motto levo` 'l muso,

crollando 'l capo, e disse: <<Odi malizia ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!>>.

Ond'ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia,

rispuose: <<Malizioso son io troppo, quand'io procuro a' mia maggior trestizia>>.

Alichin non si tenne e, di rintoppo

a li altri, disse a lui: <<Se tu ti cali, io non ti verro` dietro di gualoppo,

ma battero` sovra la pece l'ali.

Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol piu` di noi vali>>.

O
tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun da l'altra costa li occhi volse; quel prima, ch'a cio` fare era piu` crudo.

Lo Navarrese ben suo tempo colse;

fermo` le piante a terra, e in un punto salto` e dal proposto lor si sciolse.

Di che ciascun di colpa fu compunto,

ma quei piu` che cagion fu del difetto; pero` si mosse e grido`: <<Tu se' giunto!>>.

Ma poco i valse: che' l'ali al sospetto

non potero avanzar
quelli ando` sotto, e quei drizzo` volando suso il petto:

non altrimenti l'anitra di botto,

quando 'l falcon s'appressa, giu` s'attuffa, ed ei ritorna su` crucciato e rotto.

Irato Calcabrina de la buffa,

volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa;

e
come 'l barattier fu disparito, cosi` volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.

Ma l'altro fu bene sparvier grifagno

ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno.

Lo caldo sghermitor subito fue;

ma pero` di levarsi era neente, si` avieno inviscate l'ali sue.

Barbariccia, con li altri suoi dolente,

quattro ne fe' volar da l'altra costa con tutt'i raffi, e assai prestamente

di qua, di la` discesero a la posta;

porser li uncini verso li 'mpaniati, ch'eran gia` cotti dentro da la crosta;

e noi lasciammo lor cosi` 'mpacciati.


Inferno: Canto XXIII


Taciti, soli, sanza compagnia

n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo, come frati minor vanno per via.

Volt'era in su la favola d'Isopo

lo mio pensier per la presente rissa, dov'el parlo` de la rana e del topo;

che' piu` non si pareggia 'mo' e 'issa'

che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia principio e fine con la mente fissa.

E
come l'un pensier de l'altro scoppia, cosi` nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fe' doppia.
Io pensava cosi`
'Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa si` fatta, ch'assai credo che lor noi.

Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa,

ei ne verranno dietro piu` crudeli che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa'.

Gia` mi sentia tutti arricciar li peli

de la paura e stava in dietro intento, quand'io dissi: <<Maestro, se non celi

te e me tostamente, i' ho pavento

d'i Malebranche. Noi li avem gia` dietro; io li 'magino si`, che gia` li sento>>.

E
quei: <<S'i' fossi di piombato vetro, l'imagine di fuor tua non trarrei piu` tosto a me, che quella dentro 'mpetro.

Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei,

con simile atto e con simile faccia, si` che d'intrambi un sol consiglio fei.

S'elli e` che si` la destra costa giaccia,

che noi possiam ne l'altra bolgia scendere, noi fuggirem l'imaginata caccia>>.

Gia` non compie' di tal consiglio rendere,

ch'io li vidi venir con l'ali tese non molto lungi, per volerne prendere.

Lo duca mio di subito mi prese,

come la madre ch'al romore e` desta e vede presso a se' le fiamme accese,

che prende il figlio e fugge e non s'arresta,

avendo piu` di lui che di se' cura, tanto che solo una camiscia vesta;

e
giu` dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l'un de' lati a l'altra bolgia tura.

Non corse mai si` tosto acqua per doccia

a volger ruota di molin terragno, quand'ella piu` verso le pale approccia,

come 'l maestro mio per quel vivagno,

portandosene me sovra 'l suo petto, come suo figlio, non come compagno.

A
pena fuoro i pie` suoi giunti al letto del fondo giu`, ch'e' furon in sul colle sovresso noi; ma non li` era sospetto;

che' l'alta provedenza che lor volle

porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs'indi a tutti tolle.

La` giu` trovammo una gente dipinta

che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

Elli avean cappe con cappucci bassi

dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugni` per li monaci fassi.

Di fuor dorate son, si` ch'elli abbaglia;

ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia.

Oh in etterno faticoso manto!

Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto;

ma per lo peso quella gente stanca

venia si` pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d'anca.

Per ch'io al duca mio
<<Fa che tu trovi alcun ch'al fatto o al nome si conosca, e li occhi, si` andando, intorno movi>>.
E
un che 'ntese la parola tosca, di retro a noi grido`: <<Tenete i piedi, voi che correte si` per l'aura fosca!

Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi>>.

Onde 'l duca si volse e disse: <<Aspetta e poi secondo il suo passo procedi>>.

Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta

de l'animo, col viso, d'esser meco; ma tardavali 'l carco e la via stretta.

Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco

mi rimiraron sanza far parola; poi si volsero in se', e dicean seco:

<<Costui par vivo a l'atto de la gola;

e s'e' son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola?>>.

Poi disser me
<<O Tosco, ch'al collegio de l'ipocriti tristi se' venuto, dir chi tu se' non avere in dispregio>>.
E
io a loro: <<I' fui nato e cresciuto sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa, e son col corpo ch'i' ho sempre avuto.

Ma voi chi siete, a cui tanto distilla

quant'i' veggio dolor giu` per le guance? e che pena e` in voi che si` sfavilla?>>.

E
l'un rispuose a me: <<Le cappe rance son di piombo si` grosse, che li pesi fan cosi` cigolar le lor bilance.

Frati godenti fummo, e bolognesi;

io Catalano e questi Loderingo nomati, e da tua terra insieme presi,

come suole esser tolto un uom solingo,

per conservar sua pace; e fummo tali, ch'ancor si pare intorno dal Gardingo>>.

Io cominciai
<<O frati, i vostri mali...>>; ma piu` non dissi, ch'a l'occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali.

Quando mi vide, tutto si distorse,

soffiando ne la barba con sospiri; e 'l frate Catalan, ch'a cio` s'accorse,

mi disse
<<Quel confitto che tu miri, consiglio` i Farisei che convenia porre un uom per lo popolo a' martiri.

Attraversato e`, nudo, ne la via,

come tu vedi, ed e` mestier ch'el senta qualunque passa, come pesa, pria.

E
a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa>>.

Allor vid'io maravigliar Virgilio

sovra colui ch'era disteso in croce tanto vilmente ne l'etterno essilio.

Poscia drizzo` al frate cotal voce:

<<Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s'a la man destra giace alcuna foce

onde noi amendue possiamo uscirci,

sanza costrigner de li angeli neri che vegnan d'esto fondo a dipartirci>>.

Rispuose adunque
<<Piu` che tu non speri s'appressa un sasso che de la gran cerchia si move e varca tutt'i vallon feri,

salvo che 'n questo e` rotto e nol coperchia:

montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia>>.

Lo duca stette un poco a testa china;

poi disse: <<Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina>>.

E
'l frate: <<Io udi' gia` dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ' quali udi' ch'elli e` bugiardo, e padre di menzogna>>.

Appresso il duca a gran passi sen gi`,

turbato un poco d'ira nel sembiante; ond'io da li 'ncarcati mi parti'

dietro a le poste de le care piante.


Inferno: Canto XXIV


In quella parte del giovanetto anno

che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra e gia` le notti al mezzo di` sen vanno,

quando la brina in su la terra assempra

l'imagine di sua sorella bianca, ma poco dura a la sua penna tempra,

lo villanello a cui la roba manca,

si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca,

ritorna in casa, e qua e la` si lagna,

come 'l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna,

veggendo 'l mondo aver cangiata faccia

in poco d'ora, e prende suo vincastro, e fuor le pecorelle a pascer caccia.

Cosi` mi fece sbigottir lo mastro

quand'io li vidi si` turbar la fronte, e cosi` tosto al mal giunse lo 'mpiastro;

che', come noi venimmo al guasto ponte,

lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch'io vidi prima a pie` del monte.

Le braccia aperse, dopo alcun consiglio

eletto seco riguardando prima ben la ruina, e diedemi di piglio.

E
come quei ch'adopera ed estima, che sempre par che 'nnanzi si proveggia, cosi`, levando me su` ver la cima

d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia

dicendo: <<Sovra quella poi t'aggrappa; ma tenta pria s'e` tal ch'ella ti reggia>>.

Non era via da vestito di cappa,

che' noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam su` montar di chiappa in chiappa.

E
se non fosse che da quel precinto piu` che da l'altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto.

Ma perche' Malebolge inver' la porta

del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta

che l'una costa surge e l'altra scende;

noi pur venimmo al fine in su la punta onde l'ultima pietra si scoscende.

La lena m'era del polmon si` munta

quand'io fui su`, ch'i' non potea piu` oltre, anzi m'assisi ne la prima giunta.

<<Omai convien che tu cosi` ti spoltre>>,

disse 'l maestro; <<che', seggendo in piuma, in fama non si vien, ne' sotto coltre;

sanza la qual chi sua vita consuma,

cotal vestigio in terra di se' lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

E
pero` leva su`: vinci l'ambascia con l'animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s'accascia.

Piu` lunga scala convien che si saglia;

non basta da costoro esser partito. Se tu mi 'ntendi, or fa si` che ti vaglia>>.

Leva'mi allor, mostrandomi fornito

meglio di lena ch'i' non mi sentia; e dissi: <<Va, ch'i' son forte e ardito>>.

Su per lo scoglio prendemmo la via,

ch'era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto piu` assai che quel di pria.

Parlando andava per non parer fievole;

onde una voce usci` de l'altro fosso, a parole formar disconvenevole.

Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso

fossi de l'arco gia` che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso.

Io era volto in giu`, ma li occhi vivi

non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch'io: <<Maestro, fa che tu arrivi

da l'altro cinghio e dismontiam lo muro;

che', com'i' odo quinci e non intendo, cosi` giu` veggio e neente affiguro>>.

<<Altra risposta>>, disse, <<non ti rendo

se non lo far; che' la dimanda onesta si de' seguir con l'opera tacendo>>.

Noi discendemmo il ponte da la testa

dove s'aggiugne con l'ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta:

e
vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di si` diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa.

Piu` non si vanti Libia con sua rena;

che' se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena,

ne' tante pestilenzie ne' si` ree

mostro` gia` mai con tutta l'Etiopia ne' con cio` che di sopra al Mar Rosso ee.

Tra questa cruda e tristissima copia

correan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia:

con serpi le man dietro avean legate;

quelle ficcavan per le ren la coda e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.

Ed ecco a un ch'era da nostra proda,

s'avvento` un serpente che 'l trafisse la` dove 'l collo a le spalle s'annoda.

Ne' O si` tosto mai ne' I si scrisse,

com'el s'accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse;

e
poi che fu a terra si` distrutto, la polver si raccolse per se' stessa, e 'n quel medesmo ritorno` di butto.

Cosi` per li gran savi si confessa

che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa;

erba ne' biado in sua vita non pasce,

ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, e nardo e mirra son l'ultime fasce.

E
qual e` quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch'a terra il tira,
  • d'altra oppilazion che lega l'omo,

quando si leva, che 'ntorno si mira

tutto smarrito de la grande angoscia ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:

tal era il peccator levato poscia.

Oh potenza di Dio, quant'e` severa, che cotai colpi per vendetta croscia!

Lo duca il domando` poi chi ello era;

per ch'ei rispuose: <<Io piovvi di Toscana, poco tempo e`, in questa gola fiera.

Vita bestial mi piacque e non umana,

si` come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana>>.

E
io al duca: <<Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giu` 'l pinse; ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci>>.
E
'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, ma drizzo` verso me l'animo e 'l volto, e di trista vergogna si dipinse;
poi disse
<<Piu` mi duol che tu m'hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, che quando fui de l'altra vita tolto.

Io non posso negar quel che tu chiedi;

in giu` son messo tanto perch'io fui ladro a la sagrestia d'i belli arredi,

e
falsamente gia` fu apposto altrui. Ma perche' di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da' luoghi bui,

apri li orecchi al mio annunzio, e odi:

Pistoia in pria d'i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi.

Tragge Marte vapor di Val di Magra

ch'e` di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetuosa e agra

sovra Campo Picen fia combattuto;

ond'ei repente spezzera` la nebbia, si` ch'ogne Bianco ne sara` feruto.

E detto l'ho perche' doler ti debbia!>>.


Inferno: Canto XXV


Al fine de le sue parole il ladro

le mani alzo` con amendue le fiche, gridando: <<Togli, Dio, ch'a te le squadro!>>.

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,

perch'una li s'avvolse allora al collo, come dicesse 'Non vo' che piu` diche';

e
un'altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo se' stessa si` dinanzi, che non potea con esse dare un crollo.

Ahi Pistoia, Pistoia, che' non stanzi

d'incenerarti si` che piu` non duri, poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?

Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri

non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giu` da' muri.

El si fuggi` che non parlo` piu` verbo;

e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: <<Ov'e`, ov'e` l'acerbo?>>.

Maremma non cred'io che tante n'abbia,

quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia.

Sovra le spalle, dietro da la coppa,

con l'ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s'intoppa.

Lo mio maestro disse
<<Questi e` Caco, che sotto 'l sasso di monte Aventino di sangue fece spesse volte laco.

Non va co' suoi fratei per un cammino,

per lo furto che frodolente fece del grande armento ch'elli ebbe a vicino;

onde cessar le sue opere biece

sotto la mazza d'Ercule, che forse gliene die` cento, e non senti` le diece>>.

Mentre che si` parlava, ed el trascorse

e tre spiriti venner sotto noi, de' quali ne' io ne' 'l duca mio s'accorse,

se non quando gridar
<<Chi siete voi?>>; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi.

Io non li conoscea; ma ei seguette,

come suol seguitar per alcun caso, che l'un nomar un altro convenette,

dicendo
<<Cianfa dove fia rimaso?>>; per ch'io, accio` che 'l duca stesse attento, mi puosi 'l dito su dal mento al naso.

Se tu se' or, lettore, a creder lento

cio` ch'io diro`, non sara` maraviglia, che' io che 'l vidi, a pena il mi consento.

Com'io tenea levate in lor le ciglia,

e un serpente con sei pie` si lancia dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.

Co' pie` di mezzo li avvinse la pancia,

e con li anterior le braccia prese; poi li addento` e l'una e l'altra guancia;

li diretani a le cosce distese,

e miseli la coda tra 'mbedue, e dietro per le ren su` la ritese.

Ellera abbarbicata mai non fue

ad alber si`, come l'orribil fiera per l'altrui membra avviticchio` le sue.

Poi s'appiccar, come di calda cera

fossero stati, e mischiar lor colore, ne' l'un ne' l'altro gia` parea quel ch'era:

come procede innanzi da l'ardore,

per lo papiro suso, un color bruno che non e` nero ancora e 'l bianco more.

Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno

gridava: <<Ome`, Agnel, come ti muti! Vedi che gia` non se' ne' due ne' uno>>.

Gia` eran li due capi un divenuti,

quando n'apparver due figure miste in una faccia, ov'eran due perduti.

Fersi le braccia due di quattro liste;

le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso divenner membra che non fuor mai viste.

Ogne primaio aspetto ivi era casso:

due e nessun l'imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo.

Come 'l ramarro sotto la gran fersa

dei di` canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa,

si` pareva, venendo verso l'epe

de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe;

e
quella parte onde prima e` preso nostro alimento, a l'un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso.

Lo trafitto 'l miro`, ma nulla disse;

anzi, co' pie` fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l'assalisse.

Elli 'l serpente, e quei lui riguardava;

l'un per la piaga, e l'altro per la bocca fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.

Taccia Lucano ormai la` dove tocca

del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch'or si scocca.

Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio;

che' se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo 'nvidio;

che' due nature mai a fronte a fronte

non trasmuto` si` ch'amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte.

Insieme si rispuosero a tai norme,

che 'l serpente la coda in forca fesse, e il feruto ristrinse insieme l'orme.

Le gambe con le cosce seco stesse

s'appiccar si`, che 'n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse.

Togliea la coda fessa la figura

che si perdeva la`, e la sua pelle si facea molle, e quella di la` dura.

Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,

e i due pie` de la fiera, ch'eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle.

Poscia li pie` di retro, insieme attorti,

diventaron lo membro che l'uom cela, e 'l misero del suo n'avea due porti.

Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela

di color novo, e genera 'l pel suso per l'una parte e da l'altra il dipela,

l'un si levo` e l'altro cadde giuso,

non torcendo pero` le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso.

Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,

e di troppa matera ch'in la` venne uscir li orecchi de le gote scempie;

cio` che non corse in dietro e si ritenne

di quel soverchio, fe' naso a la faccia e le labbra ingrosso` quanto convenne.

Quel che giacea, il muso innanzi caccia,

e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia;

e
la lingua, ch'avea unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.

L'anima ch'era fiera divenuta,

suffolando si fugge per la valle, e l'altro dietro a lui parlando sputa.

Poscia li volse le novelle spalle,

e disse a l'altro: <<I' vo' che Buoso corra, com'ho fatt'io, carpon per questo calle>>.

Cosi` vid'io la settima zavorra

mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novita` se fior la penna abborra.

E
avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l'animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;

ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato;

l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni.


Inferno: Canto XXVI


Godi, Fiorenza, poi che se' si` grande,

che per mare e per terra batti l'ali, e per lo 'nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali

tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,

tu sentirai di qua da picciol tempo di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.

E
se gia` fosse, non saria per tempo. Cosi` foss'ei, da che pur esser dee! che' piu` mi gravera`, com'piu` m'attempo.

Noi ci partimmo, e su per le scalee

che n'avea fatto iborni a scender pria, rimonto` 'l duca mio e trasse mee;

e
proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio lo pie` sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio

quando drizzo la mente a cio` ch'io vidi, e piu` lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,

perche' non corra che virtu` nol guidi;

si` che, se stella bona o miglior cosa m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.

Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,

nel tempo che colui che 'l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede alla zanzara,

vede lucciole giu` per la vallea, forse cola` dov'e' vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea

l'ottava bolgia, si` com'io m'accorsi tosto che fui la` 've 'l fondo parea.

E
qual colui che si vengio` con li orsi vide 'l carro d'Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea si` con li occhi seguire,

ch'el vedesse altro che la fiamma sola, si` come nuvoletta, in su` salire:

tal si move ciascuna per la gola

del fosso, che' nessuna mostra 'l furto, e ogne fiamma un peccatore invola.

Io stava sovra 'l ponte a veder surto,

si` che s'io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giu` sanz'esser urto.

E
'l duca che mi vide tanto atteso, disse: <<Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch'elli e` inceso>>.

<<Maestro mio>>, rispuos'io, <<per udirti

son io piu` certo; ma gia` m'era avviso che cosi` fosse, e gia` voleva dirti:

chi e` 'n quel foco che vien si` diviso

di sopra, che par surger de la pira dov'Eteocle col fratel fu miso?>>.

Rispuose a me
<<La` dentro si martira Ulisse e Diomede, e cosi` insieme a la vendetta vanno come a l'ira;
e
dentro da la lor fiamma si geme l'agguato del caval che fe' la porta onde usci` de' Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l'arte per che, morta,

Deidamia ancor si duol d'Achille, e del Palladio pena vi si porta>>.

<<S'ei posson dentro da quelle faville

parlar>>, diss'io, <<maestro, assai ten priego e ripriego, che 'l priego vaglia mille,

che non mi facci de l'attender niego

fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver' lei mi piego!>>.

Ed elli a me
<<La tua preghiera e` degna di molta loda, e io pero` l'accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto

cio` che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi, perch'e' fuor greci, forse del tuo detto>>.

Poi che la fiamma fu venuta quivi

dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi:

<<O voi che siete due dentro ad un foco,

s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, s'io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,

non vi movete; ma l'un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi>>.

Lo maggior corno de la fiamma antica

comincio` a crollarsi mormorando pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e la` menando,

come fosse la lingua che parlasse, gitto` voce di fuori, e disse: <<Quando

mi diparti' da Circe, che sottrasse

me piu` d'un anno la` presso a Gaeta, prima che si` Enea la nomasse,

ne' dolcezza di figlio, ne' la pieta

del vecchio padre, ne' 'l debito amore lo qual dovea Penelope' far lieta,

vincer potero dentro a me l'ardore

ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l'alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.

L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,

fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi, e l'altre che quel mare intorno bagna.

Io e ' compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta dov'Ercule segno` li suoi riguardi,

accio` che l'uom piu` oltre non si metta:

da la man destra mi lasciai Sibilia, da l'altra gia` m'avea lasciata Setta.

"O frati", dissi "che per cento milia

perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'e` del rimanente,

non vogliate negar l'esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza".

Li miei compagni fec'io si` aguti,

con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti;

e
volta nostra poppa nel mattino, de' remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle gia` de l'altro polo

vedea la notte e 'l nostro tanto basso, che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto da la luna, poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n'apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto torno` in pianto,

che' de la nova terra un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fe' girar con tutte l'acque;

a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giu`, com'altrui piacque,

infin che 'l mar fu sovra noi richiuso>>.


Inferno: Canto XXVII


Gia` era dritta in su` la fiamma e queta

per non dir piu`, e gia` da noi sen gia con la licenza del dolce poeta,

quand'un'altra, che dietro a lei venia,

ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n'uscia.

Come 'l bue cicilian che mugghio` prima

col pianto di colui, e cio` fu dritto, che l'avea temperato con sua lima,

mugghiava con la voce de l'afflitto,

si` che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto;

cosi`, per non aver via ne' forame

dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertian le parole grame.

Ma poscia ch'ebber colto lor viaggio

su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio,

udimmo dire
<<O tu a cu' io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va, piu` non t'adizzo",

perch'io sia giunto forse alquanto tardo,

non t'incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo!

Se tu pur mo in questo mondo cieco

caduto se' di quella dolce terra latina ond'io mia colpa tutta reco,

dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;

ch'io fui d'i monti la` intra Orbino e 'l giogo di che Tever si diserra>>.

Io era in giuso ancora attento e chino,

quando il mio duca mi tento` di costa, dicendo: <<Parla tu; questi e` latino>>.

E
io, ch'avea gia` pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: <<O anima che se' la` giu` nascosta,

Romagna tua non e`, e non fu mai,

sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni; ma 'n palese nessuna or vi lasciai.

Ravenna sta come stata e` molt'anni:

l'aguglia da Polenta la si cova, si` che Cervia ricuopre co' suoi vanni.

La terra che fe' gia` la lunga prova

e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova.

E
'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, la` dove soglion fan d'i denti succhio.

Le citta` di Lamone e di Santerno

conduce il lioncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno.

E
quella cu' il Savio bagna il fianco, cosi` com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte tra tirannia si vive e stato franco.

Ora chi se', ti priego che ne conte;

non esser duro piu` ch'altri sia stato, se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte>>.

Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato

al modo suo, l'aguta punta mosse di qua, di la`, e poi die` cotal fiato:

<<S'i' credesse che mia risposta fosse

a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza piu` scosse;

ma pero` che gia` mai di questo fondo

non torno` vivo alcun, s'i' odo il vero, sanza tema d'infamia ti rispondo.

Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero,

credendomi, si` cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venia intero,

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,

che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m'intenda.

Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe

che la madre mi die`, l'opere mie non furon leonine, ma di volpe.

Li accorgimenti e le coperte vie

io seppi tutte, e si` menai lor arte, ch'al fine de la terra il suono uscie.

Quando mi vidi giunto in quella parte

di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte,

cio` che pria mi piacea, allor m'increbbe,

e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe.

Lo principe d'i novi Farisei,

avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin ne' con Giudei,

che' ciascun suo nimico era cristiano,

e nessun era stato a vincer Acri ne' mercatante in terra di Soldano;

ne' sommo officio ne' ordini sacri

guardo` in se', ne' in me quel capestro che solea fare i suoi cinti piu` macri.

Ma come Costantin chiese Silvestro

d'entro Siratti a guerir de la lebbre; cosi` mi chiese questi per maestro

a
guerir de la sua superba febbre: domandommi consiglio, e io tacetti perche' le sue parole parver ebbre.
E' poi ridisse
"Tuo cuor non sospetti; finor t'assolvo, e tu m'insegna fare si` come Penestrino in terra getti.

Lo ciel poss'io serrare e diserrare,

come tu sai; pero` son due le chiavi che 'l mio antecessor non ebbe care".

Allor mi pinser li argomenti gravi

la` 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio, e dissi: "Padre, da che tu mi lavi

di quel peccato ov'io mo cader deggio,

lunga promessa con l'attender corto ti fara` triunfar ne l'alto seggio".

Francesco venne poi com'io fu' morto,

per me; ma un d'i neri cherubini li disse: "Non portar: non mi far torto.

Venir se ne dee giu` tra ' miei meschini

perche' diede 'l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a' crini;

ch'assolver non si puo` chi non si pente,

ne' pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente".

Oh me dolente! come mi riscossi

quando mi prese dicendomi: "Forse tu non pensavi ch'io loico fossi!".

A
Minos mi porto`; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse,
disse
"Questi e` d'i rei del foco furo"; per ch'io la` dove vedi son perduto, e si` vestito, andando, mi rancuro>>.

Quand'elli ebbe 'l suo dir cosi` compiuto,

la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo 'l corno aguto.

Noi passamm'oltre, e io e 'l duca mio,

su per lo scoglio infino in su l'altr'arco che cuopre 'l fosso in che si paga il fio

a quei che scommettendo acquistan carco.


Inferno: Canto XXVIII


Chi poria mai pur con parole sciolte

dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch'i' ora vidi, per narrar piu` volte?

Ogne lingua per certo verria meno

per lo nostro sermone e per la mente c'hanno a tanto comprender poco seno.

S'el s'aunasse ancor tutta la gente

che gia` in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente

per li Troiani e per la lunga guerra

che de l'anella fe' si` alte spoglie, come Livio scrive, che non erra,

con quella che sentio di colpi doglie

per contastare a Ruberto Guiscardo; e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie

a
Ceperan, la` dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e la` da Tagliacozzo, dove sanz'arme vinse il vecchio Alardo;
e
qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d'aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo.

Gia` veggia, per mezzul perdere o lulla,

com'io vidi un, cosi` non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e 'l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m'attacco,

guardommi, e con le man s'aperse il petto, dicendo: <<Or vedi com'io mi dilacco!

vedi come storpiato e` Maometto!

Dinanzi a me sen va piangendo Ali`, fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

E
tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e pero` son fessi cosi`.

Un diavolo e` qua dietro che n'accisma

si` crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun di questa risma,

quand'avem volta la dolente strada;

pero` che le ferite son richiuse prima ch'altri dinanzi li rivada.

Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse,

forse per indugiar d'ire a la pena ch'e` giudicata in su le tue accuse?>>.

<<Ne' morte 'l giunse ancor, ne' colpa 'l mena>>,

rispuose 'l mio maestro <<a tormentarlo; ma per dar lui esperienza piena,

a
me, che morto son, convien menarlo per lo 'nferno qua giu` di giro in giro; e quest'e` ver cosi` com'io ti parlo>>.

Piu` fuor di cento che, quando l'udiro,

s'arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia obliando il martiro.

<<Or di` a fra Dolcin dunque che s'armi,

tu che forse vedra' il sole in breve, s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,

si` di vivanda, che stretta di neve

non rechi la vittoria al Noarese, ch'altrimenti acquistar non saria leve>>.

Poi che l'un pie` per girsene sospese,

Maometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese.

Un altro, che forata avea la gola

e tronco 'l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch'una orecchia sola,

ristato a riguardar per maraviglia

con li altri, innanzi a li altri apri` la canna, ch'era di fuor d'ogni parte vermiglia,

e
disse: <<O tu cui colpa non condanna e cu' io vidi su in terra latina, se troppa simiglianza non m'inganna,

rimembriti di Pier da Medicina,

se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabo` dichina.

E
fa saper a' due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l'antiveder qui non e` vano,

gittati saran fuor di lor vasello

e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d'un tiranno fello.

Tra l'isola di Cipri e di Maiolica

non vide mai si` gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica.

Quel traditor che vede pur con l'uno,

e tien la terra che tale qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno,

fara` venirli a parlamento seco;

poi fara` si`, ch'al vento di Focara non sara` lor mestier voto ne' preco>>.

E
io a lui: <<Dimostrami e dichiara, se vuo' ch'i' porti su` di te novella, chi e` colui da la veduta amara>>.

Allor puose la mano a la mascella

d'un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: <<Questi e` desso, e non favella.

Questi, scacciato, il dubitar sommerse

in Cesare, affermando che 'l fornito sempre con danno l'attender sofferse>>.

Oh quanto mi pareva sbigottito

con la lingua tagliata ne la strozza Curio, ch'a dir fu cosi` ardito!

E
un ch'avea l'una e l'altra man mozza, levando i moncherin per l'aura fosca, si` che 'l sangue facea la faccia sozza,
grido`
<<Ricordera'ti anche del Mosca, che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta", che fu mal seme per la gente tosca>>.
E
io li aggiunsi: <<E morte di tua schiatta>>; per ch'elli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta.

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,

e vidi cosa, ch'io avrei paura, sanza piu` prova, di contarla solo;

se non che coscienza m'assicura,

la buona compagnia che l'uom francheggia sotto l'asbergo del sentirsi pura.

Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,

un busto sanza capo andar si` come andavan li altri de la trista greggia;

e
'l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna;

e quel mirava noi e dicea: <<Oh me!>>.

Di se' facea a se' stesso lucerna,

ed eran due in uno e uno in due: com'esser puo`, quei sa che si` governa.

Quando diritto al pie` del ponte fue,

levo` 'l braccio alto con tutta la testa, per appressarne le parole sue,

che fuoro
<<Or vedi la pena molesta tu che, spirando, vai veggendo i morti: vedi s'alcuna e` grande come questa.
E
perche' tu di me novella porti, sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i ma' conforti.

Io feci il padre e 'l figlio in se' ribelli:

Achitofel non fe' piu` d'Absalone e di David coi malvagi punzelli.

Perch'io parti' cosi` giunte persone,

partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch'e` in questo troncone.

Cosi` s'osserva in me lo contrapasso>>.


Inferno: Canto XXIX


La molta gente e le diverse piaghe

avean le luci mie si` inebriate, che de lo stare a piangere eran vaghe.

Ma Virgilio mi disse
<<Che pur guate? perche' la vista tua pur si soffolge la` giu` tra l'ombre triste smozzicate?

Tu non hai fatto si` a l'altre bolge;

pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge.

E
gia` la luna e` sotto i nostri piedi: lo tempo e` poco omai che n'e` concesso, e altro e` da veder che tu non vedi>>.

<<Se tu avessi>>, rispuos'io appresso,

<<atteso a la cagion perch'io guardava, forse m'avresti ancor lo star dimesso>>.

Parte sen giva, e io retro li andava,

lo duca, gia` faccendo la risposta, e soggiugnendo: <<Dentro a quella cava

dov'io tenea or li occhi si` a posta,

credo ch'un spirto del mio sangue pianga la colpa che la` giu` cotanto costa>>.

Allor disse 'l maestro
<<Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr'ello. Attendi ad altro, ed ei la` si rimanga;

ch'io vidi lui a pie` del ponticello

mostrarti, e minacciar forte, col dito, e udi' 'l nominar Geri del Bello.

Tu eri allor si` del tutto impedito

sovra colui che gia` tenne Altaforte, che non guardasti in la`, si` fu partito>>.

<<O duca mio, la violenta morte

che non li e` vendicata ancor>>, diss'io, <<per alcun che de l'onta sia consorte,

fece lui disdegnoso; ond'el sen gio

sanza parlarmi, si` com'io estimo: e in cio` m'ha el fatto a se' piu` pio>>.

Cosi` parlammo infino al loco primo

che de lo scoglio l'altra valle mostra, se piu` lume vi fosse, tutto ad imo.

Quando noi fummo sor l'ultima chiostra

di Malebolge, si` che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra,

lamenti saettaron me diversi,

che di pieta` ferrati avean li strali; ond'io li orecchi con le man copersi.

Qual dolor fora, se de li spedali,

di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali

fossero in una fossa tutti 'nsembre,

tal era quivi, e tal puzzo n'usciva qual suol venir de le marcite membre.

Noi discendemmo in su l'ultima riva

del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista piu` viva

giu` ver lo fondo, la 've la ministra

de l'alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra.

Non credo ch'a veder maggior tristizia

fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l'aere si` pien di malizia,

che li animali, infino al picciol vermo,

cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo,

si ristorar di seme di formiche;

ch'era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche.

Qual sovra 'l ventre, e qual sovra le spalle

l'un de l'altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle.

Passo passo andavam sanza sermone,

guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone.

Io vidi due sedere a se' poggiati,

com'a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al pie` di schianze macolati;

e
non vidi gia` mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, ne' a colui che mal volontier vegghia,

come ciascun menava spesso il morso

de l'unghie sopra se' per la gran rabbia del pizzicor, che non ha piu` soccorso;

e
si` traevan giu` l'unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie
  • d'altro pesce che piu` larghe l'abbia.

<<O tu che con le dita ti dismaglie>>,

comincio` 'l duca mio a l'un di loro, <<e che fai d'esse talvolta tanaglie,

dinne s'alcun Latino e` tra costoro

che son quinc'entro, se l'unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro>>.

<<Latin siam noi, che tu vedi si` guasti

qui ambedue>>, rispuose l'un piangendo; <<ma tu chi se' che di noi dimandasti?>>.

E
'l duca disse: <<I' son un che discendo con questo vivo giu` di balzo in balzo, e di mostrar lo 'nferno a lui intendo>>.

Allor si ruppe lo comun rincalzo;

e tremando ciascuno a me si volse con altri che l'udiron di rimbalzo.

Lo buon maestro a me tutto s'accolse,

dicendo: <<Di` a lor cio` che tu vuoli>>; e io incominciai, poscia ch'ei volse:

<<Se la vostra memoria non s'imboli

nel primo mondo da l'umane menti, ma s'ella viva sotto molti soli,

ditemi chi voi siete e di che genti;

la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi>>.

<<Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena>>,

rispuose l'un, <<mi fe' mettere al foco; ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.

Vero e` ch'i' dissi lui, parlando a gioco:

"I' mi saprei levar per l'aere a volo"; e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,

volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo

perch'io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l'avea per figliuolo.

Ma nell 'ultima bolgia de le diece

me per l'alchimia che nel mondo usai danno` Minos, a cui fallar non lece>>.

E
io dissi al poeta: <<Or fu gia` mai gente si` vana come la sanese? Certo non la francesca si` d'assai!>>.

Onde l'altro lebbroso, che m'intese,

rispuose al detto mio: <<Tra'mene Stricca che seppe far le temperate spese,

e
Niccolo` che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l'orto dove tal seme s'appicca;
e
tra'ne la brigata in che disperse Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda, e l'Abbagliato suo senno proferse.

Ma perche' sappi chi si` ti seconda

contra i Sanesi, aguzza ver me l'occhio, si` che la faccia mia ben ti risponda:

si` vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,

che falsai li metalli con l'alchimia; e te dee ricordar, se ben t'adocchio,

com'io fui di natura buona scimia>>.


Inferno: Canto XXX


Nel tempo che Iunone era crucciata

per Semele` contra 'l sangue tebano, come mostro` una e altra fiata,

Atamante divenne tanto insano,

che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano,

grido`
<<Tendiam le reti, si` ch'io pigli la leonessa e ' leoncini al varco>>; e poi distese i dispietati artigli,

prendendo l'un ch'avea nome Learco,

e rotollo e percosselo ad un sasso; e quella s'annego` con l'altro carco.

E
quando la fortuna volse in basso l'altezza de' Troian che tutto ardiva, si` che 'nsieme col regno il re fu casso,

Ecuba trista, misera e cattiva,

poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva

del mar si fu la dolorosa accorta,

forsennata latro` si` come cane; tanto il dolor le fe' la mente torta.

Ma ne' di Tebe furie ne' troiane

si vider mai in alcun tanto crude, non punger bestie, nonche' membra umane,

quant'io vidi in due ombre smorte e nude,

che mordendo correvan di quel modo che 'l porco quando del porcil si schiude.

L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo

del collo l'assanno`, si` che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo.

E
l'Aretin che rimase, tremando mi disse: <<Quel folletto e` Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui cosi` conciando>>.

<<Oh!>>, diss'io lui, <<se l'altro non ti ficchi

li denti a dosso, non ti sia fatica a dir chi e`, pria che di qui si spicchi>>.

Ed elli a me
<<Quell'e` l'anima antica di Mirra scellerata, che divenne al padre fuor del dritto amore amica.

Questa a peccar con esso cosi` venne,

falsificando se' in altrui forma, come l'altro che la` sen va, sostenne,

per guadagnar la donna de la torma,

falsificare in se' Buoso Donati, testando e dando al testamento norma>>.

E
poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu' io avea l'occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati.

Io vidi un, fatto a guisa di leuto,

pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.

La grave idropesi`, che si` dispaia

le membra con l'omor che mal converte, che 'l viso non risponde a la ventraia,

facea lui tener le labbra aperte

come l'etico fa, che per la sete l'un verso 'l mento e l'altro in su` rinverte.

<<O voi che sanz'alcuna pena siete,

e non so io perche', nel mondo gramo>>, diss'elli a noi, <<guardate e attendete

a
la miseria del maestro Adamo: io ebbi vivo assai di quel ch'i' volli, e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo.

Li ruscelletti che d'i verdi colli

del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli,

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,

che' l'imagine lor vie piu` m'asciuga che 'l male ond'io nel volto mi discarno.

La rigida giustizia che mi fruga

tragge cagion del loco ov'io peccai a metter piu` li miei sospiri in fuga.

Ivi e` Romena, la` dov'io falsai

la lega suggellata del Batista; per ch'io il corpo su` arso lasciai.

Ma s'io vedessi qui l'anima trista

di Guido o d'Alessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista.

Dentro c'e` l'una gia`, se l'arrabbiate

ombre che vanno intorno dicon vero; ma che mi val, c'ho le membra legate?

S'io fossi pur di tanto ancor leggero

ch'i' potessi in cent'anni andare un'oncia, io sarei messo gia` per lo sentiero,

cercando lui tra questa gente sconcia,

con tutto ch'ella volge undici miglia, e men d'un mezzo di traverso non ci ha.

Io son per lor tra si` fatta famiglia:

e' m'indussero a batter li fiorini ch'avevan tre carati di mondiglia>>.

E
io a lui: <<Chi son li due tapini che fumman come man bagnate 'l verno, giacendo stretti a' tuoi destri confini?>>.

<<Qui li trovai - e poi volta non dierno - >>,

rispuose, <<quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno.

L'una e` la falsa ch'accuso` Gioseppo;

l'altr'e` 'l falso Sinon greco di Troia: per febbre aguta gittan tanto leppo>>.

E
l'un di lor, che si reco` a noia forse d'esser nomato si` oscuro, col pugno li percosse l'epa croia.

Quella sono` come fosse un tamburo;

e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro,

dicendo a lui
<<Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, ho io il braccio a tal mestiere sciolto>>.
Ond'ei rispuose
<<Quando tu andavi al fuoco, non l'avei tu cosi` presto; ma si` e piu` l'avei quando coniavi>>.
E
l'idropico: <<Tu di' ver di questo: ma tu non fosti si` ver testimonio la` 've del ver fosti a Troia richesto>>.

<<S'io dissi falso, e tu falsasti il conio>>,

disse Sinon; <<e son qui per un fallo, e tu per piu` ch'alcun altro demonio!>>.

<<Ricorditi, spergiuro, del cavallo>>,

rispuose quel ch'avea infiata l'epa; <<e sieti reo che tutto il mondo sallo!>>.

<<E te sia rea la sete onde ti crepa>>,

disse 'l Greco, <<la lingua, e l'acqua marcia che 'l ventre innanzi a li occhi si` t'assiepa!>>.

Allora il monetier
<<Cosi` si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole; che' s'i' ho sete e omor mi rinfarcia,

tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole,

e per leccar lo specchio di Narcisso, non vorresti a 'nvitar molte parole>>.

Ad ascoltarli er'io del tutto fisso,

quando 'l maestro mi disse: <<Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!>>.

Quand'io 'l senti' a me parlar con ira,

volsimi verso lui con tal vergogna, ch'ancor per la memoria mi si gira.

Qual e` colui che suo dannaggio sogna,

che sognando desidera sognare, si` che quel ch'e`, come non fosse, agogna,

tal mi fec'io, non possendo parlare,

che disiava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare.

<<Maggior difetto men vergogna lava>>,

disse 'l maestro, <<che 'l tuo non e` stato; pero` d'ogne trestizia ti disgrava.

E
fa ragion ch'io ti sia sempre allato, se piu` avvien che fortuna t'accoglia dove sien genti in simigliante piato:

che' voler cio` udire e` bassa voglia>>.


Inferno: Canto XXXI


Una medesma lingua pria mi morse,

si` che mi tinse l'una e l'altra guancia, e poi la medicina mi riporse;

cosi` od'io che solea far la lancia

d'Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia.

Noi demmo il dosso al misero vallone

su per la ripa che 'l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone.

Quiv'era men che notte e men che giorno,

si` che 'l viso m'andava innanzi poco; ma io senti' sonare un alto corno,

tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco,

che, contra se' la sua via seguitando, dirizzo` li occhi miei tutti ad un loco.

Dopo la dolorosa rotta, quando

Carlo Magno perde' la santa gesta, non sono` si` terribilmente Orlando.

Poco portai in la` volta la testa,

che me parve veder molte alte torri; ond'io: <<Maestro, di', che terra e` questa?>>.

Ed elli a me
<<Pero` che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri.

Tu vedrai ben, se tu la` ti congiungi,

quanto 'l senso s'inganna di lontano; pero` alquanto piu` te stesso pungi>>.

Poi caramente mi prese per mano,

e disse: <<Pria che noi siamo piu` avanti, accio` che 'l fatto men ti paia strano,

sappi che non son torri, ma giganti,

e son nel pozzo intorno da la ripa da l'umbilico in giuso tutti quanti>>.

Come quando la nebbia si dissipa,

lo sguardo a poco a poco raffigura cio` che cela 'l vapor che l'aere stipa,

cosi` forando l'aura grossa e scura,

piu` e piu` appressando ver' la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura;

pero` che come su la cerchia tonda

Montereggion di torri si corona, cosi` la proda che 'l pozzo circonda

torreggiavan di mezza la persona

li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona.

E
io scorgeva gia` d'alcun la faccia, le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, e per le coste giu` ambo le braccia.

Natura certo, quando lascio` l'arte

di si` fatti animali, assai fe' bene per torre tali essecutori a Marte.

E
s'ella d'elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, piu` giusta e piu` discreta la ne tene;

che' dove l'argomento de la mente

s'aggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi puo` far la gente.

La faccia sua mi parea lunga e grossa

come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l'altre ossa;

si` che la ripa, ch'era perizoma

dal mezzo in giu`, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma

tre Frison s'averien dato mal vanto;

pero` ch'i' ne vedea trenta gran palmi dal loco in giu` dov'omo affibbia 'l manto.

<<Raphel mai` ameche zabi` almi>>,

comincio` a gridar la fiera bocca, cui non si convenia piu` dolci salmi.

E
'l duca mio ver lui: <<Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quand'ira o altra passion ti tocca!

Cercati al collo, e troverai la soga

che 'l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che 'l gran petto ti doga>>.

Poi disse a me
<<Elli stessi s'accusa; questi e` Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s'usa.

Lascianlo stare e non parliamo a voto;

che' cosi` e` a lui ciascun linguaggio come 'l suo ad altrui, ch'a nullo e` noto>>.

Facemmo adunque piu` lungo viaggio,

volti a sinistra; e al trar d'un balestro, trovammo l'altro assai piu` fero e maggio.

A
cigner lui qual che fosse 'l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l'altro e dietro il braccio destro

d'una catena che 'l tenea avvinto

dal collo in giu`, si` che 'n su lo scoperto si ravvolgea infino al giro quinto.

<<Questo superbo volle esser esperto

di sua potenza contra 'l sommo Giove>>, disse 'l mio duca, <<ond'elli ha cotal merto.

Fialte ha nome, e fece le gran prove

quando i giganti fer paura a' dei; le braccia ch'el meno`, gia` mai non move>>.

E
io a lui: <<S'esser puote, io vorrei che de lo smisurato Briareo esperienza avesser li occhi miei>>.
Ond'ei rispuose
<<Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed e` disciolto, che ne porra` nel fondo d'ogne reo.

Quel che tu vuo' veder, piu` la` e` molto,

ed e` legato e fatto come questo, salvo che piu` feroce par nel volto>>.

Non fu tremoto gia` tanto rubesto,

che scotesse una torre cosi` forte, come Fialte a scuotersi fu presto.

Allor temett'io piu` che mai la morte,

e non v'era mestier piu` che la dotta, s'io non avessi viste le ritorte.

Noi procedemmo piu` avante allotta,

e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta.

<<O tu che ne la fortunata valle

che fece Scipion di gloria reda, quand'Anibal co' suoi diede le spalle,

recasti gia` mille leon per preda,

e che, se fossi stato a l'alta guerra de'tuoi fratelli, ancor par che si creda

ch'avrebber vinto i figli de la terra;

mettine giu`, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra.

Non ci fare ire a Tizio ne' a Tifo:

questi puo` dar di quel che qui si brama; pero` ti china, e non torcer lo grifo.

Ancor ti puo` nel mondo render fama,

ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta se 'nnanzi tempo grazia a se' nol chiama>>.

Cosi` disse 'l maestro; e quelli in fretta

le man distese, e prese 'l duca mio, ond'Ercule senti` gia` grande stretta.

Virgilio, quando prender si sentio,

disse a me: <<Fatti qua, si` ch'io ti prenda>>; poi fece si` ch'un fascio era elli e io.

Qual pare a riguardar la Carisenda

sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr'essa si`, ched ella incontro penda;

tal parve Anteo a me che stava a bada

di vederlo chinare, e fu tal ora ch'i' avrei voluto ir per altra strada.

Ma lievemente al fondo che divora

Lucifero con Giuda, ci sposo`; ne' si` chinato, li` fece dimora,

e come albero in nave si levo`.


Inferno: Canto XXXII


S'io avessi le rime aspre e chiocce,

come si converrebbe al tristo buco sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,

io premerei di mio concetto il suco

piu` pienamente; ma perch'io non l'abbo, non sanza tema a dicer mi conduco;

che' non e` impresa da pigliare a gabbo

discriver fondo a tutto l'universo, ne' da lingua che chiami mamma o babbo.

Ma quelle donne aiutino il mio verso

ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe, si` che dal fatto il dir non sia diverso.

Oh sovra tutte mal creata plebe

che stai nel loco onde parlare e` duro, mei foste state qui pecore o zebe!

Come noi fummo giu` nel pozzo scuro

sotto i pie` del gigante assai piu` bassi, e io mirava ancora a l'alto muro,

dicere udi'mi
<<Guarda come passi: va si`, che tu non calchi con le piante le teste de' fratei miseri lassi>>.

Per ch'io mi volsi, e vidimi davante

e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d'acqua sembiante.

Non fece al corso suo si` grosso velo

di verno la Danoia in Osterlicchi, ne' Tanai la` sotto 'l freddo cielo,

com'era quivi; che se Tambernicchi

vi fosse su` caduto, o Pietrapana, non avria pur da l'orlo fatto cricchi.

E
come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l'acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana;

livide, insin la` dove appar vergogna

eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna.

Ognuna in giu` tenea volta la faccia;

da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia.

Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto,

volsimi a' piedi, e vidi due si` stretti, che 'l pel del capo avieno insieme misto.

<<Ditemi, voi che si` strignete i petti>>,

diss'io, <<chi siete?>>. E quei piegaro i colli; e poi ch'ebber li visi a me eretti,

li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,

gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli.

Con legno legno spranga mai non cinse

forte cosi`; ond'ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse.

E
un ch'avea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giue,

disse: <<Perche' cotanto in noi ti specchi?

Se vuoi saper chi son cotesti due,

la valle onde Bisenzo si dichina del padre loro Alberto e di lor fue.

D'un corpo usciro; e tutta la Caina

potrai cercare, e non troverai ombra degna piu` d'esser fitta in gelatina;

non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra

con esso un colpo per la man d'Artu`; non Focaccia; non questi che m'ingombra

col capo si`, ch'i' non veggio oltre piu`,

e fu nomato Sassol Mascheroni; se tosco se', ben sai omai chi fu.

E
perche' non mi metti in piu` sermoni, sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni>>.

Poscia vid'io mille visi cagnazzi

fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verra` sempre, de' gelati guazzi.

E
mentre ch'andavamo inver' lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, e io tremava ne l'etterno rezzo;

se voler fu o destino o fortuna,

non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi 'l pie` nel viso ad una.

Piangendo mi sgrido`
<<Perche' mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta di Montaperti, perche' mi moleste?>>.
E
io: <<Maestro mio, or qui m'aspetta, si ch'io esca d'un dubbio per costui; poi mi farai, quantunque vorrai, fretta>>.

Lo duca stette, e io dissi a colui

che bestemmiava duramente ancora: <<Qual se' tu che cosi` rampogni altrui?>>.

<<Or tu chi se' che vai per l'Antenora,

percotendo>>, rispuose, <<altrui le gote, si` che, se fossi vivo, troppo fora?>>.

<<Vivo son io, e caro esser ti puote>>,

fu mia risposta, <<se dimandi fama, ch'io metta il nome tuo tra l'altre note>>.

Ed elli a me
<<Del contrario ho io brama. Levati quinci e non mi dar piu` lagna, che' mal sai lusingar per questa lama!>>.

Allor lo presi per la cuticagna,

e dissi: <<El converra` che tu ti nomi,

  • che capel qui su` non ti rimagna>>.
Ond'elli a me
<<Perche' tu mi dischiomi, ne' ti diro` ch'io sia, ne' mosterrolti, se mille fiate in sul capo mi tomi>>.

Io avea gia` i capelli in mano avvolti,

e tratto glien'avea piu` d'una ciocca, latrando lui con li occhi in giu` raccolti,

quando un altro grido`
<<Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? qual diavol ti tocca?>>.

<<Omai>>, diss'io, <<non vo' che piu` favelle,

malvagio traditor; ch'a la tua onta io portero` di te vere novelle>>.

<<Va via>>, rispuose, <<e cio` che tu vuoi conta;

ma non tacer, se tu di qua entro eschi, di quel ch'ebbe or cosi` la lingua pronta.

El piange qui l'argento de' Franceschi:

"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera la` dove i peccatori stanno freschi".

Se fossi domandato "Altri chi v'era?",

tu hai dallato quel di Beccheria di cui sego` Fiorenza la gorgiera.

Gianni de' Soldanier credo che sia

piu` la` con Ganellone e Tebaldello, ch'apri` Faenza quando si dormia>>.

Noi eravam partiti gia` da ello,

ch'io vidi due ghiacciati in una buca, si` che l'un capo a l'altro era cappello;

e
come 'l pan per fame si manduca, cosi` 'l sovran li denti a l'altro pose la` 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:

non altrimenti Tideo si rose

le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l'altre cose.

<<O tu che mostri per si` bestial segno

odio sovra colui che tu ti mangi, dimmi 'l perche'>>, diss'io, <<per tal convegno,

che se tu a ragion di lui ti piangi,

sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi,

se quella con ch'io parlo non si secca>>.


Inferno: Canto XXXIII


La bocca sollevo` dal fiero pasto

quel peccator, forbendola a'capelli del capo ch'elli avea di retro guasto.

Poi comincio`
<<Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme gia` pur pensando, pria ch'io ne favelli.

Ma se le mie parole esser dien seme

che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, parlar e lagrimar vedrai insieme.

Io non so chi tu se' ne' per che modo

venuto se' qua giu`; ma fiorentino mi sembri veramente quand'io t'odo.

Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,

e questi e` l'arcivescovo Ruggieri: or ti diro` perche' i son tal vicino.

Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,

fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non e` mestieri;

pero` quel che non puoi avere inteso,

cioe` come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.

Breve pertugio dentro da la Muda

la qual per me ha 'l titol de la fame, e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,

m'avea mostrato per lo suo forame

piu` lune gia`, quand'io feci 'l mal sonno che del futuro mi squarcio` 'l velame.

Questi pareva a me maestro e donno,

cacciando il lupo e ' lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno.

Con cagne magre, studiose e conte

Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s'avea messi dinanzi da la fronte.

In picciol corso mi parieno stanchi

lo padre e ' figli, e con l'agute scane mi parea lor veder fender li fianchi.

Quando fui desto innanzi la dimane,

pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli ch'eran con meco, e dimandar del pane.

Ben se' crudel, se tu gia` non ti duoli

pensando cio` che 'l mio cor s'annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli?

Gia` eran desti, e l'ora s'appressava

che 'l cibo ne solea essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava;

e
io senti' chiavar l'uscio di sotto a l'orribile torre; ond'io guardai nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

Io non piangea, si` dentro impetrai:

piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: "Tu guardi si`, padre! che hai?".

Percio` non lacrimai ne' rispuos'io

tutto quel giorno ne' la notte appresso, infin che l'altro sol nel mondo uscio.

Come un poco di raggio si fu messo

nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso,

ambo le man per lo dolor mi morsi;

ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia di manicar, di subito levorsi

e disser: "Padre, assai ci fia men doglia

se tu mangi di noi
tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia".

Queta'mi allor per non farli piu` tristi;

lo di` e l'altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perche' non t'apristi?

Poscia che fummo al quarto di` venuti,

Gaddo mi si gitto` disteso a' piedi, dicendo: "Padre mio, che' non mi aiuti?".

Quivi mori`; e come tu mi vedi,

vid'io cascar li tre ad uno ad uno tra 'l quinto di` e 'l sesto; ond'io mi diedi,

gia` cieco, a brancolar sovra ciascuno,

e due di` li chiamai, poi che fur morti. Poscia, piu` che 'l dolor, pote' 'l digiuno>>.

Quand'ebbe detto cio`, con li occhi torti

riprese 'l teschio misero co'denti, che furo a l'osso, come d'un can, forti.

Ahi Pisa, vituperio de le genti

del bel paese la` dove 'l si` suona, poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,

e faccian siepe ad Arno in su la foce, si` ch'elli annieghi in te ogne persona!

Che' se 'l conte Ugolino aveva voce

d'aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l'eta` novella,

novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata e li altri due che 'l canto suso appella.

Noi passammo oltre, la` 've la gelata

ruvidamente un'altra gente fascia, non volta in giu`, ma tutta riversata.

Lo pianto stesso li` pianger non lascia,

e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l'ambascia;

che' le lagrime prime fanno groppo,

e si` come visiere di cristallo, riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.

E
avvegna che, si` come d'un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo,

gia` mi parea sentire alquanto vento:

per ch'io: <<Maestro mio, questo chi move? non e` qua giu` ogne vapore spento?>>.

Ond'elli a me
<<Avaccio sarai dove di cio` ti fara` l'occhio la risposta, veggendo la cagion che 'l fiato piove>>.
E
un de' tristi de la fredda crosta grido` a noi: <<O anime crudeli, tanto che data v'e` l'ultima posta,

levatemi dal viso i duri veli,

si` ch'io sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna, un poco, pria che 'l pianto si raggeli>>.

Per ch'io a lui
<<Se vuo' ch'i' ti sovvegna, dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna>>.
Rispuose adunque
<<I' son frate Alberigo; i' son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo>>.

<<Oh!>>, diss'io lui, <<or se' tu ancor morto?>>.

Ed elli a me: <<Come 'l mio corpo stea nel mondo su`, nulla scienza porto.

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,

che spesse volte l'anima ci cade innanzi ch'Atropos mossa le dea.

E
perche' tu piu` volentier mi rade le 'nvetriate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l'anima trade

come fec'io, il corpo suo l'e` tolto

da un demonio, che poscia il governa mentre che 'l tempo suo tutto sia volto.

Ella ruina in si` fatta cisterna;

e forse pare ancor lo corpo suso de l'ombra che di qua dietro mi verna.

Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso:

elli e` ser Branca Doria, e son piu` anni poscia passati ch'el fu si` racchiuso>>.

<<Io credo>>, diss'io lui, <<che tu m'inganni;

che' Branca Doria non mori` unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni>>.

<<Nel fosso su`>>, diss'el, <<de' Malebranche,

la` dove bolle la tenace pece, non era ancor giunto Michel Zanche,

che questi lascio` il diavolo in sua vece

nel corpo suo, ed un suo prossimano che 'l tradimento insieme con lui fece.

Ma distendi oggimai in qua la mano;

aprimi li occhi>>. E io non gliel'apersi; e cortesia fu lui esser villano.

Ahi Genovesi, uomini diversi

d'ogne costume e pien d'ogne magagna, perche' non siete voi del mondo spersi?

Che' col peggiore spirto di Romagna

trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito gia` si bagna,

e in corpo par vivo ancor di sopra.


Inferno: Canto XXXIV


<<Vexilla regis prodeunt inferni

verso di noi; pero` dinanzi mira>>, disse 'l maestro mio <<se tu 'l discerni>>.

Come quando una grossa nebbia spira,

  • quando l'emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che 'l vento gira,

veder mi parve un tal dificio allotta;

poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio; che' non li` era altra grotta.

Gia` era, e con paura il metto in metro,

la` dove l'ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro.

Altre sono a giacere; altre stanno erte,

quella col capo e quella con le piante; altra, com'arco, il volto a' pie` rinverte.

Quando noi fummo fatti tanto avante,

ch'al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch'ebbe il bel sembiante,

d'innanzi mi si tolse e fe' restarmi,

<<Ecco Dite>>, dicendo, <<ed ecco il loco ove convien che di fortezza t'armi>>.

Com'io divenni allor gelato e fioco,

nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, pero` ch'ogne parlar sarebbe poco.

Io non mori' e non rimasi vivo:

pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, qual io divenni, d'uno e d'altro privo.

Lo 'mperador del doloroso regno

da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia; e piu` con un gigante io mi convegno,

che i giganti non fan con le sue braccia:

vedi oggimai quant'esser dee quel tutto ch'a cosi` fatta parte si confaccia.

S'el fu si` bel com'elli e` ora brutto,

e contra 'l suo fattore alzo` le ciglia, ben dee da lui proceder ogne lutto.

Oh quanto parve a me gran maraviglia

quand'io vidi tre facce a la sua testa! L'una dinanzi, e quella era vermiglia;

l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa

sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, e se' giugnieno al loco de la cresta:

e
la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di la` onde 'l Nilo s'avvalla.

Sotto ciascuna uscivan due grand'ali,

quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid'io mai cotali.

Non avean penne, ma di vispistrello

era lor modo; e quelle svolazzava, si` che tre venti si movean da ello:

quindi Cocito tutto s'aggelava.

Con sei occhi piangea, e per tre menti gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.

Da ogne bocca dirompea co' denti

un peccatore, a guisa di maciulla, si` che tre ne facea cosi` dolenti.

A
quel dinanzi il mordere era nulla verso 'l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla.

<<Quell'anima la` su` c'ha maggior pena>>,

disse 'l maestro, <<e` Giuda Scariotto, che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.

De li altri due c'hanno il capo di sotto,

quel che pende dal nero ceffo e` Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!;

e
l'altro e` Cassio che par si` membruto. Ma la notte risurge, e oramai e` da partir, che' tutto avem veduto>>.

Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai;

ed el prese di tempo e loco poste, e quando l'ali fuoro aperte assai,

appiglio` se' a le vellute coste;

di vello in vello giu` discese poscia tra 'l folto pelo e le gelate croste.

Quando noi fummo la` dove la coscia

si volge, a punto in sul grosso de l'anche, lo duca, con fatica e con angoscia,

volse la testa ov'elli avea le zanche,

e aggrappossi al pel com'om che sale, si` che 'n inferno i' credea tornar anche.

<<Attienti ben, che' per cotali scale>>,

disse 'l maestro, ansando com'uom lasso, <<conviensi dipartir da tanto male>>.

Poi usci` fuor per lo foro d'un sasso,

e puose me in su l'orlo a sedere; appresso porse a me l'accorto passo.

Io levai li occhi e credetti vedere

Lucifero com'io l'avea lasciato, e vidili le gambe in su` tenere;

e
s'io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual e` quel punto ch'io avea passato.

<<Levati su`>>, disse 'l maestro, <<in piede:

la via e` lunga e 'l cammino e` malvagio, e gia` il sole a mezza terza riede>>.

Non era camminata di palagio

la` 'v'eravam, ma natural burella ch'avea mal suolo e di lume disagio.

<<Prima ch'io de l'abisso mi divella,

maestro mio>>, diss'io quando fui dritto, <<a trarmi d'erro un poco mi favella:

ov'e` la ghiaccia? e questi com'e` fitto

si` sottosopra? e come, in si` poc'ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?>>.

Ed elli a me
<<Tu imagini ancora d'esser di la` dal centro, ov'io mi presi al pel del vermo reo che 'l mondo fora.

Di la` fosti cotanto quant'io scesi;

quand'io mi volsi, tu passasti 'l punto al qual si traggon d'ogne parte i pesi.

E
se' or sotto l'emisperio giunto ch'e` contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto

fu l'uom che nacque e visse sanza pecca:

tu hai i piedi in su picciola spera che l'altra faccia fa de la Giudecca.

Qui e` da man, quando di la` e` sera;

e questi, che ne fe' scala col pelo, fitto e` ancora si` come prim'era.

Da questa parte cadde giu` dal cielo;

e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui fe' del mar velo,

e
venne a l'emisperio nostro; e forse per fuggir lui lascio` qui loco voto quella ch'appar di qua, e su` ricorse>>.

Luogo e` la` giu` da Belzebu` remoto

tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono e` noto

d'un ruscelletto che quivi discende

per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, col corso ch'elli avvolge, e poco pende.

Lo duca e io per quel cammino ascoso

intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo,

salimmo su`, el primo e io secondo,

tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.




Google

Enciclopedia - Mappa: - A - B - C - D - E - F - G - H - I - J - K - L - M - N - O - P - Q - R - S - T - U - V - W - X - Y - Z